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Jimi Hendrix: the boy from Seattle
Jimi Hendrix: the boy from Seattle
di [user #116] - pubblicato il

La città che trent’anni dopo avrebbe visto nascere il Grunge aveva già fatto la rivoluzione. Ecco un insieme di quadri dedicati a Jimi Hendrix, l’uomo che ha reso la chitarra elettrica uno status simble.
Omaggio al genio di Seattle

EdoFrasso scrive:
Ecco qua, signori, il mio omaggio al genio di Seattle. Buona lettura...
Era la fine del 1970 quando Hendrix decideva di porre fine anche al progetto della Band of Gypsys. Il mancino di Seattle era consumato nel profondo da demoni e fatiche. Erano emersi nell’ultimo anno e mezzo giganti dell’hard rock, dai Led Zeppelin, ai Deep Purple, e stava venendo fuori una band dal sound di spaventosa energia di nome Black Sabbath. I nuovi gruppi erano la nuova leva del Rock, ma attendevano con riverenziale ansia la nuova fatica artistica del re della sei corde. La stampa musicale insinuava continuamente, viste le ultime apparizioni in pubblico visivamente provato, che il celebre chitarrista era finito artisticamente, e che fosse il caso che si ritirasse. Un paio di volte rischiò il collasso a causa delle droghe. Mai stampa fu più crudele con un artista di così gran spessore.

Jimi Hendrix: The Place They Can Make Us Believe In.
  • Easy To Listen, Try To Live It
  • You Have Me (My Money In Your Hand)
  • I Don’t Want To Be, But I Am
  • The Sigar You Want To Smoke
  • Looking For The Body Of God
  • You Have Me (My Soul In Your Hand)
  • My Wisper Night
  • Six Snakes
  • The Revenge Blues
  • Praing A Mother
  • I Can’t Forget My Love
  • You Have Me (My Cry In Your Head)
  • The Place They Can Make Us Believe In
Lui semplicemente sparì dalla circolazione, ma non tornò a casa, a Seattle, perché era arrivato ad un livello di completa non sopportazione dei suoi familiari, in particolar di suo padre, che sentiva lo avesse ingannato e spremuto senza ritegno, per puro guadagno.
Il mondo del Rock lo sosteneva ed aspettava fiducioso l’ultima sua fatica. Qualcuno mise addirittura in giro la voce che il musicista era morto.
Hendrix si trasferì alle Hawaii, in una zona soleggiata e discreta, e passava le giornate a scrivere poesie, suonare le sue chitarre ed assumere droghe. Non vedeva quasi nessuno, se non gli spacciatori della zona. Era immensamente solo.
La pressione che il mondo esercitava su di lui minava la sua capacità di concretizzare l’arte.
Sentiva di non avere punti di riferimento, non solo musicali, ma anche umani. Pensava, rifletteva sul nuovo lavoro, scriveva riff e canzoni che teneva accuratamente da parte. Era arrabbiato con tutto quello che lo aveva ridotto così. Solo, triste e drogato.
Tutta la sua rabbia si concretizzò in feroci attacchi di odio contro tutto ciò che riguardava la maggior parte delle persone dell’industria discografica che lo avevano portato a tutto questo. Nella sua testa si sviluppò un disco che fosse un attacco a tutto ciò. Una vendetta a tutto il mondo del business.
Ora la sua arte era solo sua e decise che nessuno sarebbe potuto venire a prendersela. Pensava a tutti quelli che bevevano champagne comprato con i soldi guadagnati sulla sua arte mentre lui passava le nottate in qualche albergo, confuso con le sue crisi d’identità con la groupie di turno e strisce di coca qua e là.
Pensava a chi aveva lasciato che si autodistruggesse perché la sua arte ne giovava e i guadagni aumentavano. Pensava a sua madre. Più pensava e più canzoni, riff, testi, venivano fuori.
Continuò così fino alla metà del ’71, quando ricevette l’inaspettata visita di Mitch Michell. Il batterista era stato fino a quel momento rispettoso della privacy del grande amico, ma ora era arrivato il momento di farlo uscire da li.
Michell trovò un Hendrix sempre confuso, ma non più disperato. Era arrabbiato, ma la sua stessa musica lo aveva salvato a poco a poco. Perfino il suo uso di droghe era diminuito, anche se era ugualmente ad alti livelli. Fu in quell’occasione che Hendrix parlò all’amico del concept album sul mondo dell’industria discografica che aveva in testa.
I testi avrebbero parlato del mondo del business tramite metafore, in maniera volutamente gonfiata, esagerata, così da enfatizzare il messaggio. Gli fece sentire qualcuno dei brani in lavorazione.
 
Il batterista ne rimase folgorato e propose di rimettere in piedi la Jimi Hendrix Experience, e di produrre l’album in proprio, a spese proprie, registrandolo e affinandone la distribuzione con la Rykodisc, etichetta per cui registrava Frank Zappa, (Hendrix era uno dei pochi artisti di cui Zappa avesse dichiarato ufficialmente la propria stima, e il musicista avrebbe fatto da tramite).
Nel frattempo alla MCA pensavano che Hendrix fosse andato di testa e che avevano in mano vari diritti su varie composizione, e fecero uscire un album di inediti da banale titolo Psichedelic Journey composto da scarti dai precendenti album, che ebbe un discreto successo di pubblico. Questo rese l’artista ancora più furioso. Richiamato a raccolta Noel Redding e alcuni dei musicisti che avevano collaborato a Electric Ladyland, come Mike Finnegan e Buddy Miles, l’album fu registrato per tutto il resto del ’71 e uscì nel febbraio del ’72, sotto lo stupore del mondo convinto che il ciclone Hendrix fosse scomparso.
 
Tredici tracce tredici:
 
"Easy To Listen, Try To Live It", la prima traccia, è una specie di cantilena semipsichedelica lunga poco più di un minuto, con suoni e voci varie da parte di tutti i musicisti coinvolti (strana l’assenza in mezzo a tutto ciò della stessa chitarra di Hendrix, che parla in primo piano e basta) e funge perlopiù da intro. “Facile da ascoltare, prova a viverlo tu”, con queste parole Hendrix se la prende con il pubblico, che tanto aveva ascoltato passivamente le parole dei giornalisti che narravano morbosamente il suo declino morale e psichico che a nessuno era venuto in mente essere un reale dramma, essere frutto di una reale crisi umana. Più avanti, alla domanda sul perché Hendrix se la fosse preso con il pubblico che aveva ascoltato e non con la critica stessa, lui rispose che non mise chiari riferimenti al giornalismo, perché preferiva non considerarli nemmeno, ma parlare, anche rimproverando chiaramente, con qualcuno che potesse capirlo, ossia il suo pubblico.
La rivoluzione musicale di Hendrix parte dalla seconda traccia, e primo pezzo vero e proprio. Essa è la prima delle tre sezioni di “You Have Me”. La composizione è divisa in tre parti, e chiaramente in “Voi Mi Avete” parla dei discografici. Questa prima parte analizza la questione economica, e quindi il fatto che i soldi che lui otteneva andavano a loro in gran parte. Il lato musicale è quanto di più arrabbiato Hendrix abbia mai composto, eseguito e fatto eseguire dai suoi musicisti fino a quel momento. Il riff del pezzo, orienteggiante e minaccioso, è la colonna portante di tutto, e in tutte e due le continuazioni del brano è presente, anche se con qualche variazione nell’arrangiamento. E’ un brano rapido, con un portamento regale e furioso, praticamente pre Heavy Metal.
La successiva “I Don’t Want To Be, But I Am”, è una composizione dai toni soul in un contesto jazz rock, quasi progressive, forse anche ispirato dall’occasionale presenza, puramente come spettatore, di Zappa, a varie sessioni dell’album. Hendrix incide uno dei suoi soli su base jazzata più intensi, oltre che molto libero a livello di tonalità. Mike Finnegan, all’hammond, sembra riprenda il lavoro che lasciò in Rainy Day, Dream Away, ma funkeggiandolo ulteriormente. Il testo è sviluppato attorno all’idea di essere qualcosa che non si vuole, e del non riuscire a smettere di esserlo.
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle
Curiosamente dopo il solo di Jimi, alla fine del pezzo, entra una seconda batteria, di Mich Michell, a intrecciarsi con quella già suonata da Buddy Miles, e dopo qualche secondo di scambi di rullate, il pezzo entra direttamente in "The Sigar You Want To Smoke”, lasciando alla batteria solo Michell. Questo è un Rock in grado di far gridare l’ascoltatore, e contemporaneamente di farlo commuovere fino alle lacrime. “Il sigaro che volete fumare” chiaramente è Hendrix, che si riferisce del consumo della sua anima e del suo corpo da parte del buisness esattamente come del consumo di un sigaro. E’ uno dei testi più struggenti di Hendrix, che urla più volte, “questa mano la porterò io sulle mie corde”.
 
Il riff del pezzo ha un qualcosa della versione di Afro Blue di John Coltrane. Dopo un assolo veramente indemoniato accade un deja-vu, ovvero che si torna ad un doppio assolo di batteria che unifica questo con il prossimo pezzo, in cui il ruolo ripassa da Michell a Miles, che introduce la ritmica cadenzata e sensuale di “Looking For The Body Of God”, un jazz sinuoso che parla delle Grupie e delle loro vite sregolate. Il corpo di Dio è un chiaro riferimento al sesso.
La prossima è la prima delle due riprese di “You Have Me”, sottotitolata “My Soul In Your Hand”, supportata dallo stesso riff, doppiato con una chitarra acustica a dodici corde, questa è invece incentrata sulla sofferenza spirituale di Hendrix. Il chitarrista sovrappone il cantato e armonizza la propria voce, in un risultato futuristico e particolarissimo.
E’ a questo punto che Hendrix diventa fortemente confidenziale e narra le sue notti di autodistruzione, sesso e soprattutto droga. ”The Wisper Night”, dai toni notturni, con larghe incursioni acustiche, dimostra un tono sofferto ma coraggioso. “La notte del respiro” è quella di quando si aspira, di quando si fuma, di quando semplicemente si vive, e il genio mancino crea qui intrecci ed esperimenti sonori unici, arrivando perfino a tentare di armonizzare il suo respiro in numerose sovrincisioni, creando un effetto spiritico oltre che vagamente inquietante. Tutte le parti di chitarra sono in questo brano suonate con una Gibson ES 335 accoppiata a Mesa Boogie, filtrata da numerosi effetti.
 
"Six Snakes" parte con un solo di chitarra incredibilmente distorto. I sei serpenti sono chiaramente le corde della chitarra. E’ qui che ci si può rendere conto in maniera definitiva dell’ulteriore miglioramento tecnico di Hendrix nel tocco e nella precisione. Il pezzo è un grandioso strumentale, compreso di botte e risposte tra lui e uno scatenato Michell. Noel Redding leggero ma registrato a volume altissimo, che lo rende davvero presente.
Qui l’album fa addentrare l’ascoltatore in due micidiali Blues di fila da quasi dieci minuti ciascuno. Il blues della vendetta, “The Revenge Blues”, è un brano avvelenato, sporco, il cui a parlare perlopiù sono le chitarre che Hendrix sovraincide e intreccia, in una morsa di rara tensione, che soffoca i suoi occasionali versi nel brano, mentre il successivo “Praing A Mother”, dichiarata fin dal titolo alla madre, è semplicemente il miglior Blues di Hendrix dai tempi di Red House, oltre che il più struggente della sua intera carriera. Velati toni Soul sono spinti senza troppi freni, e a rispondere agli occasionali falsetti alla fine di ogni strofa c’è lo strillo di un Hendrix davvero distrutto. Commozione, e basta.
 
"I Can’t Forget My Love" è l’unico brano nell’album in cui ci sia un riferimento all’amore, in senso estremamente vasto, in una parte che unisce l’emozionalità di Bold As Love con il calore Blues di Hey Joe.
 
L’ormai celebre riff di “You Have Me” torna in “My Cry In Your Head”. Questa è l’unica delle tre suddivisioni del brano in cui il tono del testo è quasi di tristezza nei confronti delle persone contro cui lui si scaglia. Il testo ruota attorno per l’appunto al figurato grido di Hendrix che oro sentono nelle loro teste. Ruota insomma sui loro sensi di colpa. Il Jazz ed il Progressive tornano qui in maniera abbastanza prepotente.
 
L’eccezionale brano di chiusura, nonché quello che da il nome all’album, è la chiave per capire lo stato mentale e psicologico del chitarrista di Seattle. “The Place They Can Make Us Believe In” si apre tra sovrincisioni chitarristiche di chitarre a sei e a dodici corde, tutte rigorosamente elettriche. Il riff è lungo, quasi un tema, dal suono vasto, spaziale, che molto deve a John Coltrane, ma anche a Pete Townsed, in uno splendido esempio di fusione di generi, di ispirazioni provenienti da dimensioni culturali completamente differenti da loro. In questo Riff eccezionale, moderatamente aggressivo, intensamente spirituale e un calibro perfetto tra accordi, arpeggi e pesanti accordi Hard Rock, c’è tutto il genio di Hendrix.
“The Place” rappresenta la condizione mentale nel quale Hendrix era costretto a stare in quei giorni in cui veniva spremuto nell’anima, in quelle “notti del respiro” in cui cercava di annientarsi. La canzone è una chiamata a raccolta “il posto in cui loro vogliono farci credere, è grande quanto il loro pugno, è pericoloso come una corda intorno al collo. Aspettano solo che tu cada dalla sedia”. “They just wait you fall from the chair”. Nel truce riferimento al cappio, metafora della costrizione ma anche della morte, Hendrix crea un coro degno del misticismo di Bob Marley, che spinge all’unione, e crea una incredibile epicità, che molto lentamente sfuma ma resta indelebile nella testa di chiunque ascolti.
Jimi Hendrix, Il mancino nero di Seattle aveva scagliato il suo attacco contro il business musicale, che tentava di togliere al rock l’arte. Attendeva ora, solo una risposta, da parte della gente, da parte dei compagni d’arte, per ridare all’arte quel che era suo di diritto.
L’attacco era sferrato.


James Marshall Hendrix
 
James Marshall Hendrix (Jimi) è considerato da molti il più grande chitarrista di tutti i tempi(27 Novembre 1942-18 Settembre 1970), il suo suono ha cambiato il mondo della musica, rivoluzionando il modo di suonare e di approcciarsi alla chitarra. Jimi Hendrix nasce a Seattle da una famiglia umile e disagiata, in seguito crescerà sotto la figura della nonna dopo il divorzio dei genitori, giovanissimo si avvicina alla chitarra che lo allontanerà ulteriormente dalla vita scolastica; lo zio di Hendrix amava ricordare il suo primo approccio alla chitarra come qualcosa di straordinario per il suo modo "strambo" di suonare.
 
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle
Negli Stati Uniti,però, non riesce ad avere un vero contratto, si vede così costretto a trasferisrsi in Inghilterra, allora centro musicale mondiale, dove in pochi giorni acquista fama(diventa amico dei Rolling Stone e degli Animals) e riunisce la Jimi Hendrix Experience.
Successivamente l’ascesa al mainstream è molto veloce, forse troppo, il 18 Settembre 1970 Hendrix viene trovato morto nella sua camera d’albergo a Londra dopo un disastroso live, dove il pubblico lo contestò fortemente; Londra non era del tutto pronta per le sue nuove frontiere musicali.
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Per i suoi tempi era molto all’avanguardia, grazie alle sue composizioni dal suono caldo e blues(si ispira molto al Chicago Blues di Muddy Waters e Albert King) ma contemporaneamente psichedelico, quindi un sound molto ricercato e espresso grazie agli effetti che il pubblico indicava con curiosità da sotto il palco. Inoltre sfruttava magistralmente le potenzialità dell’amplificatore e della sua Strato, ad esempio l’uso della leva, e del feedback soprattutto live.

Nei suoi tre album più importanti: Are You Experienced?, Axis:Bold as Love e Eletric Ladyland si sente pienamente il contributo di Univibe(Little Wing), Fuzz (Purple Haze), e WahWah(Voodoo Chile).

La chitarra era principalmente una Fender Stratocaster del 1968 colore bianco o classico nero(la sua prima chitarra), particolarità di Hendrix era il fatto di comprare le chitarre in negozio, senza intrattenere rapporti commerciali con le case produttrici, spesso però ricorreva a personalizzazioni in liuteria.

Nel famosissimo episodio del Monterey Pop Festival(1967) usa una Stratocaster auto-dipinta con motivi particolari; invece al Festival dell’Isola di Wight(1970) usa strordinariamente una Gibson Flying-V.
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Come amplificatore usava il Marshall 1959SLP 100Watt Super Lead Plexi Head, allora la casa produttrice non era ancora famosa e blasonata come ora, diventa famosa proprio grazie a Jimi Hendrix, difatti i primi modelli erano pressoché riproduzioni del Fender Bassman.
Entrando nel particolare, questa è la catena di effetti: Univibe---->FuzzFace(distorsore)---->Octaver----->WahWah----->Chitarra

L’Univibe e lo Wah sono di marca Vox, mentre il Fuzz e l’Octaver sono di un liutaio di nome Roger Mayer.

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Ma chi era Jimi Hendrix?

E se dopo tanto discorrere di Lucio Battisti ci si chiedesse: Ma chi era Jimi Hendrix? Accostamento ardito, vero? Direi proprio di sì, vista la diversità dei personaggi, anche se sono quasi coscritti. 1943 per Battisti, nato un anno dopo Jimi. I due sono comunque lontanissimi per quanto riguarda, ovviamente, le origini, ma anche la cultura, la storia personale, diverssissimi come genere musicale, estro, fino al modo di proporsi. Però entrambi, pur se in maniera totalmente differente, hanno lasciato un segno su questa terra, un’impronta incancellabile in Italia per Lucio, il suo marchio nel mondo Jimi Hendrix e, lasciatemelo dire, una grande, infinita nostalgia per un’epopea volata via e per i personaggi irripetibili che l’hanno caratterizzata.
 
Anche in questo articolo il tema non è tanto parlare del personaggio in sé, tutti sanno chi era James (Jimi) Marshall Hendrix (Seattle 27 novembre 1942-Londra 18 settembre 1970 ecc. ecc.), questo almeno da un punto di vista biografico, ma la domanda è un’altra: cosa è stato Jimi Hendrix per noi che abbiamo vissuto quel periodo?
Per noi, noi nati nei cinquanta, quello è stato un periodo fantastico, potevi entrare in un negozio di dischi e acquistare l’ultimo LP dei Led Zeppelin, o di Janis Joplin, o dei Deep Purple o di Jimi Hendrix. Fa impressione pensarlo vero? Entrare in un negozio e poter scegliere tra l’ultimo dei King Krimson o dei Cream, o appunto l’ultima fatica di Jimi con la stessa semplicità con cui oggi si potrebbe acquistare l’ultimo di Gigi D’Alessio (con tutto il rispetto...), che storia!
Jimi Hendrix: the boy from Seattle
Torino 1968, a quell’epoca avevo quindici anni e, come tanti, a volte si marinava la scuola, oppure c’erano gli scioperi dei movimenti studenteschi, sempre molto frequenti e cattivissimi, comunque in un modo o nell’altro portavamo noi, i libri, le nostre fragili ideologie e i nostri lunghissimi capelli in giro da qualche parte, normalmente le nostre mete preferite stavano in centro città. Un pomeriggio di quel 1968 capitai in piazza Castello, pieno centro città. Lì c’era Maschio, un enorme negozio di dischi (ora non c’è più). All’epoca quei negozi avevano le cabine, le cabine erano appunto... delle cabine dove c’era un piatto giradischi e una cuffia, tu ti prendevi tutti i dischi che volevi e te li andavi ad ascoltare in cabina, e se te ne piaceva qualcuno, lo compravi.
Sembra impossibile pensare di farlo oggi vero?
Comunque quel giorno io e i miei compagni fummo attratti da un disco, un LP doppio con una strana copertina (all’epoca le copertine erano importantissime). Il titolo: Electric Ladyland, di un certo Jimi Hendrix and the Experience. Metter su la cuffia e dire che fu una folgorazione non basta, è stato come se le nostre piccole menti che come massimo del rock avevano a disposizione l’Equipe 84 o i Dik Dik, o a esagerare qualcosa dei Beatles o A Whiter shade of pale dei Procol Arum, dopo l’ascolto di Jimi fossero riuscite finalmente a vedere per la prima volta la luce. E fu rock, quello vero.
Ma se Jimi era il mito, quel mito era inarrivabile, noi con le nostre chitarrine suonate a orecchio eravamo totalmente inadeguati, impossibile tentare di imitarlo, impensabile rifare i suoni che si sentivano sui suoi dischi, inutile tentare di rifare un suo solo. Purtroppo nessuno di noi andava a scuola di chitarra e non c’era internet con i video, le guitar lesson, non c’erano i programmi come Guitar Pro con tutti i files da scaricare, c’era solo il giradischi e il tuo orecchio, e per le nostre limitatissime capacità Jimi era troppo difficile. Tanto difficile che ricordo si sparse la voce che in realtà lui non suonava, che dietro il personaggio c’era tutta una montatura, che lui faceva finta, che non c’era niente di vero. Alcuni giunsero a raccontare che nei concerti, il cavo della sua chitarra lo si vedeva sparire dietro una tenda dove chissà cosa c’era! E il mito montava, si ingrandiva. Se anche conoscevi uno bravo a suonare, magari uno di quelli che suonava in un complesso e gli chiedevi di fare un pezzo di Jimi, quello ti guardava come se fossi uno scemo, e rispondeva: “Ma sei matto?”. Poi magari a forza di provare ti veniva il riff di Voodoo Chile, ma piu in là era il buio. Poi col mito di Jimi se ne creò un altro parallelo, la Fender Stratocaster. Ora bisogna pensare che all’epoca Jimi alla radio non esisteva, Jimi viveva solo nei dischi, non avevamo altre immagini che le copertine degli LP e qualche giornaletto musicale, ovvio che se ti capitava di vedere esposta una Stratocaster in qualche vetrina, lì davanti ci passavi la giornata, ti portavi anche i panini... Poi c’era il terzo mistero: La chiatarra mancina che però non era mancina ma una chitarra destra suonata a sinistra, e le corde? C’era chi giurava e spergiurava che le corde non erano invertite, che Jimi suonava col mi cantino in alto e il resto a scendere. Si fantasticava che lui avesse imparato da solo su una elettrica arrivatagli chissà come, solo che il povero Jimi, essendo mancino e privo di direttive, prese la chitarra e la suonò da mancino così com’era. Insomma un mito avvolto nel mistero più profondo. Mancava solo che qualcuno arrivasse a dire d’averlo visto camminare sull’acqua e poi eravamo a posto... Per fortuna arrivò un evento a diradare un po’ di nubi, uscì un film che fece epoca: Woodstock (Tre giorni di pace amore e musica). Noi, naturalmente invece di tre giorni di pace, amore e musica, passammo tre giorni nel cinema per quegli ultimi fotogrammi, per vedere lui che si esibiva davanti a una platea totalmente vuota. Che emozione! Dopo, tutti a casa a provare The Star-Spangled Banner con risultati... alquanto discutibili. Intanto in giro si vedevano le prime capigliature alla Jimi Hendrix, e le camicie a fiori si sprecavano, Jimi aveva raggiunto l’apice della popolarità. Mi son sempre chiesto cosa sarebbe diventato Jimi se quel 18 settembre del 1970 non fosse arrivata la notizia. Chissà quanta musica, quanti pezzi, quanta chtarra ci è stata negata. Lui è stato uno di quelli che non dovrebbero morire mai, almeno non così presto. Jimi Hendrix, un altro così non c’è più stato, un genio così assoluto, una classe così cristallina, perfetta. Un talento simile, forse paragonabile solo a Mozart, non s’è più visto, peccato, un vero peccato andarsene così.

Jimi Hendrix a Woodstock: Go America!

Oggi 27 novembre 2012 James Marshall Hendrix avrebbe compiuto settant'anni. Da Woodstock ai simbolismi di "Star Spangled Banner", celebriamo l'uomo e l'artista che ha rivoluzionato il volto della chitarra elettrica e della musica tutta.

Tutto sembrava far pensare al peggio per la chiusura dell’evento. Gli infiniti problemi di ordine tecnico e il cattivo tempo resero indispensabile dilatare il festival - originariamente previsto per il 15, 16 e 17 agosto del 1969 - fino a lunedì 18. Domenica, infatti, la manifestazione avrebbe dovuto chiudersi con l’evento clou, il concerto di Jimi Hendrix atteso per mezzanotte. Gli organizzatori offrirono a Hendrix di salire sul palco all’orario prestabilito, proponendo di far slittare alcuni concerti minori, ma fu proprio Jimi che optò per rimandare la sua esibizione al giorno successivo, deciso a voler suonare per ultimo. Probabilmente è proprio per questo che oggi le immagini della sua performance a Woodstock sono scolpite nella memoria collettiva: la luce del mattino e le condizioni atmosferiche si rivelarono ideali per filmarla e regalarle l’eternità.
Hendrix salì sul palco alle 9, davanti a un pubblico più che dimezzato rispetto al weekend (l’incantesimo dei Tre Giorni di Amore & Musica venne interrotto dall’inesorabile campanella degli obblighi scolastici e lavorativi) e diede inizio a un concerto eccezionale sotto molti punti di vista.
Innanzi tutto si presentò con una band formata solo pochi giorni prima. Vennero introdotti sul palco dal presentatore come “The Jimi Hendrix Experience” (nome del trio con cui Hendrix aveva suonato dal ’66 fino a un paio di mesi prima), ma Jimi chiarì al pubblico che si trattava, invece, dei Gypsy Sun and Rainbows. Fu l’unica formazione con un secondo chitarrista e una delle più ampie con cui si sia esibito a suo nome: Mitch Mitchell (già negli Experience) alla batteria, Billy Cox (ex compagno d’armi) al basso, Larry Lee alla chitarra ritmica e voce, Juma Sultan e Jerry Velez alle percussioni.
Le pochissime prove del gruppo sembravano promettere un autentico disastro, senza contare che la maggior parte di quei musicisti non aveva mai suonato di fronte a un grande pubblico. Andò diversamente: la band si lanciò in un’esibizione di due ore circa (la più lunga che Jimi abbia mai fatto), suonando con grande feel, una trascinante forza ritmica e sprigionando una misteriosa energia che ha pervaso l’intero set con picchi di rara intensità.
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle
 
Era un periodo di transizione nella carriera di Jimi e se il suo show sembrava guardare al futuro (a partire dal brano di apertura, l’inedito “Message to Love”), non ha lasciato fuori i grandi successi del passato recente come "Foxy Lady", "Fire" e "Hey Joe", raro bis con cui chiuse l’esibizione. Stranamente incluse anche due brani scritti da Curtis Mayfield diverso tempo prima ("Gypsy Woman" e "Aware of Love", cantati in un medley da Larry Lee e non presenti nelle registrazioni ufficiali dell’evento), mai suonati da Hendrix dal vivo in altre occasioni. Ma è probabilmente dopo due terzi dello show che consegnò alla storia il momento più bello del festival e uno dei più emozionanti della sua carriera. Aveva eseguito quel brano dal vivo una trentina di volte in precedenza, ma con l’interpretazione di "Star Spangled Banner" a Woodstock Hendrix ha immortalato la sua inquietante e coinvolta visione dell’America come non aveva mai fatto prima. In quasi quattro minuti di suoni distorti, feedback e un uso selvaggio della leva a evocare bombe che cadono, sirene di ambulanze e grida, Hendrix - ex paracadutista dell’esercito USA - riporta l’inno americano alle sue origini e lo contestualizza, al contempo, nel conflitto in Vietnam. Non molti sanno, infatti, che la poesia di Francis Scott Key che costituisce il testo dell’inno parla proprio di sangue, bombe e razzi.
L’interpretazione di Hendrix venne accolta negativamente da molti Americani, che la trovarono una parodia irrispettosa e poco ortodossa, e quando il celebre conduttore televisivo Dick Cavett chiese a Jimi il suo parere sulla controversia, questi rispose semplicemente “Sono americano e quindi l’ho suonata. […] Non penso fosse non ortodossa. Pensavo fosse bella”. Tre settimane dopo l’esibizione dichiarò alla stampa “[L’ho suonata perché] Siamo tutti Americani. O no? Era come dire ‘Vai America!’”.
Sicuramente l’esecuzione del pezzo assume un significato particolare nel quadro in cui venne eseguita (Woodstock fu il più grande evento collettivo della controcultura americana durante la guerra in Vietnam) e il sentimento comune della maggior parte di coloro i quali vissero quel momento è che il messaggio che veicolava non fosse rivolto contro gli Stati Uniti, ma contro gli orrori della guerra, al fine di esorcizzarne il terrore in una sorta di rituale rock.
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle

A rendere ancor più vibrante quel messaggio fu il fatto che, in un periodo di grandi tensioni razziali negli USA, a lanciarlo fosse il musicista di colore dal più ampio seguito, che aveva dovuto migrare in Europa per vedersi riconoscere i propri meriti artistici e tornare, poi, in patria da eroe: il ruolo da headliner in un evento di dimensioni bibliche come Woodstock ne consacrava definitivamente lo status. Un feroce inno di protesta, insomma, ma anche un grido di appartenenza agli Stati Uniti d’America, Paese lacerato e scenario in mutamento il cui clima è stato espresso alla perfezione nella performance di Hendrix. Poche altre dichiarazioni artistiche hanno incanalato le angosce e le contraddizioni di un’epoca in modo così brutale e al contempo sublime.
Significativamente, "Star Spangled Banner", emerso in mezzo a un lungo medley e che a sua volta includerà un accenno al mesto “Taps” (“Il Silenzio”), sfocerà in “Purple Haze” per poi lasciare spazio alla chiusura del set.
I partecipanti al festival di Woodstock furono tanti (Who, Joe Cocker, Ten Years After, Johnny Winter, Crosby, Still, Nash & Young, Grateful Dead, Janis Joplin, Santana, per citarne alcuni) ma il concerto finale rimane il momento più elettrizzante ed emblematico dell’intero festival e forse di una generazione. Poco più di un anno dopo Hendrix morì a Londra all’età di 27 anni.
 

Il 27 novembre 2012, per celebrare il 70esimo anniversario della nascita di Jimi Hendrix, arriva nei cinema “Hendrix 70. Live at Woodstock”, il film che permetterà di rivivere collettivamente quel momento, restituito al pubblico dopo un lavoro di restauro sul master audio e il cui mix è stato curato da Eddie Kramer, sound engineer del festival e fonico di Hendrix. A integrare i filmati della performance, materiali inediti e interviste all’organizzatore Eddie Lang, ad alcuni membri della band e allo stesso Kramer.
Un filmato che ha cambiato le vite di molti e che continuerà a farlo.


Londra e i parrocchetti di Hendrix

Che Hendrix abbia rivoluzionato il panorama della musica rock è indiscutibile. Che il suo impatto possa aver alterato l’ecosistema britannico (e di Londra in particolare), però, lascia a bocca aperta anche i suoi sostenitori più appassionati.
 
Lo sappiamo bene, i resoconti sulla vita delle rockstar sono costellati di leggende e aneddoti alle soglie dell’inverosimile, eppure c’è una storia su Hendrix che perdura nella memoria collettiva e che pare sostanziata addirittura dal parere di eminenti ornitologi. Avete letto bene: la vicenda, infatti, collega l’axeman di Seattle a delle copiosissime colonie di parrocchetti (piccoli pappagallini) che si stanno riproducendo oltre misura nella capitale britannica e altrove.
Le querce e i castagni di Richmond Park, Hyde Park, Kensington Gardens, Primrose Hill, Hampstead Heath e altre zone di Londra sono stati scelti come habitat ideale da un numero elevatissimo e sempre crescente di pappagallini originari dell’Asia del sud e la cosa va avanti da decenni, ormai. Ma quali sono le origini di questo insolito fenomeno? A quanto pare, sul finire degli anni ’60, Hendrix avrebbe liberato una coppia di parrocchetti nei cieli sopra Carnaby Street, come sostengono in molti, ed è proprio a partire da quel periodo che si sarebbe registrato il moltiplicarsi delle colonie di volatili variopinti.
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle

Sembra assurdo? Non lo è. A confermarlo è il dottor Richard Black della Royal Society for the Protection of Birds, una tra le associazioni ambientaliste più popolari al mondo, in una recente intervista rilasciata a GQ. «È sicuramente possibile che gli uccelli di Jimi Hendrix abbiano contribuito all’instaurarsi di questa popolazione» afferma Black, che però ricorda che ci sono altre teorie sulle origini del fenomeno: «secondo altri, sarebbero scappati dal set del film "La regina d’Africa" [1951, con Humphrey Bogart e Katherine Hepburn] e durante la tempesta del 1987, ed è possibile che tutte quelle teorie siano corrette».
Ma davvero tutto potrebbe essere stato originato da Hendrix in persona? Black chiarisce che «la prima segnalazione di un parrocchetto in libertà risale al 1855, quindi ci sono state fughe prima di allora. […] Ma ci devono essere diverse fughe affinché si arrivi a una colonia. È improbabile che una sola coppia o un paio di coppie di uccelli abbiano potuto creare una colonia riproduttiva. Si ritiene che Hendrix abbia rilasciato gli uccelli negli anni ’60 a Carnaby Street e la prima riproduzione segnalata ha avuto luogo nel Kent nel 1969. Non ci sono state segnalazioni a Londra fino al 1973, ma sono uccelli che vivono a lungo e non cominciano a riprodursi fino al terzo anno di vita». Dato che Hendrix liberò i suoi uccelli tra il ’66 e il ’70, è plausibile che abbiano contribuito a stabilire la colonia londinese.
Più che la paternità del fenomeno, a interessare il dottor Black e la RSPB è la preoccupazione concreta che i parrocchetti possano avere un effetto negativo sulla fauna ornitologica britannica, che potrebbero minare, essendo particolarmente rumorosi e con un becco potente. In fondo, non è quello che ha fatto Hendrix al suo arrivo a Londra nel ’66, sconvolgendo la scena musicale con colori, suoni e un’attitudine mai visti prima?
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle

La bizzarra notizia arriva poco dopo l'apertura ufficiale della sezione dedicata a Hendrix nel museo Händel/Hendrix di Brook Street a Londra (zona West End). Il caso ha voluto che alla fine degli anni ’60 Hendrix abitasse nella mansarda al numero 23, separata soltanto da un muro dalla casa abitata da Georg Frideric Händel nel 18° secolo, al numero 25.  La casa-museo di Händel è aperta al pubblico dal 2001, mentre quella di Hendrix era occupata da uffici amministrativi. Grazie al fundraising e al supporto del Heritage Lottery Fund, l’appartamento di Hendrix verrà riportato interamente allo stato in cui era nel ‘68/’69 e ospiterà, oltre alla mostra dedicata al chitarrista, delle interessanti attività interattive. ​


Nuovo album per Jimi Hendrix: People, Hell & Angels

Dodici nuove registrazioni inedite spuntano fuori dal cappello della Experience Hendrix LLC. In arrivo a marzo 2013 un nuovo album di Jimi Hendrix con tastiere, seconde chitarre e strumenti a fiato.

Esattamente come lo spirito di un defunto che appare in sogno per dare i numeri del lotto, Jimi Hendrix continua a sfornare successi anche dopo la sua dipartita.
A quasi tre anni di distanza dall'ultimo album postumo, Valleys of Neptune, una nuova raccolta di registrazioni inedite è pronta per finire tra le mani dei fan del chitarrista di Seattle.
People, Hell & Angels, questo il nome dell'album, raccoglie dodici brani incisi a partire dal 1968 in una pasta del tutto nuova per Hendrix.
Le take sono frutto di numerose collaborazioni tra il chitarrista e vari artisti esterni al suo storico trio, comprendendo formazioni ben più ampie e arricchite dalle sonorità di tastiere, percussioni, una seconda chitarra e anche strumenti a fiato.

Il disco, il cui titolo è anche il nome di una canzone in esso contenuta, uscirà il 5 marzo 2013 e rappresenta un'anticipazione della direzione musicale che Jimi avrebbe intrapreso poco prima che la sua carriera venisse interrotta bruscamente. La voglia di Hendrix di collaborare con vari artisti si rispecchia nei nomi che compaiono nelle lineup di People, Hell & Angels, quali Stephen Stills, Buddy Miles e Billy Cox, tra gli altri.
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle

I brani inclusi nel disco, non necessariamente in quest'ordine, saranno:

Earth Blues
Somewhere
Hear My Train A Comin'
Bleeding Heart
Let Me Move You
Izabella
Easy Blues
Crash Landing
Inside Out
Hey Gypsy Boy
Mojo Man
Villanova Junction Blues
 

Jimi Hendrix è tra gli artisti postumi più prolifici di sempre con ben undici lavori pubblicati dopo la sua scomparsa. Escluse le innumerevoli compilation e raccolte di best of, un gran numero di brani registrati e mai pubblicati dall'artista quando ancora in vita sono stati recuperati dalla sua famiglia, che cura il suo patrimonio artistico, e inseriti in lavori seminati nei decenni. Questa la lista completa di studio album dal 1970, anno della sua morte, fino al 2010, anno di pubblicazione dell'ultimo disco:

1971 - The Cry of Love
1971 - Rainbow Bridge
1972 - War Heroes
1974 - Loose Ends
1975 - Crash Landing
1975 - Midnight Lightning
1980 - Nine to the Universe
1988 - Radio One
1997 - First Rays of the New Rising Sun
1997 - South Saturn Delta
2010 - Valleys of Neptune


All Is by My Side: il film su Jimi Hendrix

Ci sono storie di vita talmente eccezionali che sembrano fatte apposta per essere tradotte in sceneggiatura. Le parabole rock, va da sé, sembrerebbero materiale ideale per una trasposizione cinematografica, soprattutto se contenenti una componente tragica.
 
Ci sono storie di vita talmente eccezionali che sembrano fatte apposta per essere tradotte in sceneggiatura. Le parabole rock, va da sé, sembrerebbero materiale ideale per una trasposizione cinematografica, soprattutto se contenenti una componente tragica.
Eppure sono numerosi i casi di tentativi fallimentari di biopic dedicate alle grandi leggende della musica: progetti pronti su carta e mai avviati, progetti abbandonati in diversi stadi della loro evoluzione e progetti realizzati ma rivelatisi deludenti.

L’idea di un film biografico su Jimi Hendrix ha solleticato numerosi registi negli ultimi 40 anni, ma, a parte un film per la TV di Leon Ichaso dal titolo “Hendrix” uscito nel 2000 e “Jimi Hendrix – The Last 24 Hours” che ha durata inferiore e un carattere documentario (degli attori interpretano il film, ma è una voce fuori campo a narrare la vicenda), nella sostanza nessun lungometraggio di rilievo prende in esame per intero la vicenda di questo colosso del chitarrismo mondiale, la cui vita è tanto affascinante quanto difficile da trattare.
 
È stato, forse, l’insieme di queste riflessioni a spingere John Ridley - scrittore, attore, sceneggiatore e regista statunitense che proprio quest’anno ha vinto un premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale con il film “12 anni schiavo” - a realizzare “All Is by My Side”, un film sull’axeman di Seattle, che si concentra su dodici soli mesi della sua vita.

Il periodo che Ridley ha deciso di approfondire è il ’66-’67. La storia parte dall’incontro-chiave di Hendrix con Linda Keith - interpretata da Imogen Poots - che all’epoca aveva una relazione con Keith Richards (dopo averlo sentito suonare al Cheetah Club di New York, la giovane lo introdusse dapprima, senza esito, al manager degli Stones, Andrew Loog Oldham, e poi a Chas Chandler, bassista degli Animals, incontro che cambiò letteralmente la sua vita: Chandler rimase talmente entusiasta che decise di lanciarlo, portandolo con sé a Londra), fino al giorno precedente all’esibizione di Hendrix al Monterey Pop Festival, che costituì la sua consacrazione.
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle

Scelta interessante, quella di rappresentare unicamente i mesi immediatamente pre-fama, carichi della tensione precedente all’esplosione di questo fenomeno mondiale, lasciando fuori gli albori della storia e la problematica ricostruzione del tuo tragico epilogo. Ma sono già molte le critiche sollevate: diverse persone direttamente legate a Hendrix ritengono che i fatti descritti siano ampiamente fittizi, prima tra tutte Kathy Etchingham, che con Hendrix ebbe una relazione. Figura nota nella Swinging London degli anni ’60, in alcune scene del film di Ridley - dove è interpretata da Hayley Atwell - la Etchingham viene brutalmente e ripetutamente picchiata da Hendrix, cosa che ha negato sia mai successa, definendolo un uomo buono e gentile.

Altra nota dolente è la colonna sonora: a quanto pare, il film non include canzoni scritte da Hendrix, poiché la Experience Hendrix LLC (società che cura il patrimonio artistico di Hendrix) ha negato il permesso di utilizzo, a meno a che non venisse concessa alla società una partecipazione alla produzione. Sono state utilizzate, invece, canzoni che Hendrix era solito interpretare nel ’66 e nel ’67, prima che uscisse il suo disco di debutto, oltre a una serie di tracce registrate ex novo che ne copiano lo stile.

Il difficile ruolo di Hendrix è stato affidato ad André Benjamin (aka André 3000, membro del duo hip hop statunitense OutKast), che, a giudicare dal trailer ufficiale, è decisamente all’altezza della situazione (a tratti la somiglianza nel parlato è impressionante).
 

Presentato pochi giorni fa al Biografilm Festival di Bologna, presumibilmente il film uscirà nelle sale il 18 settembre prossimo, in occasione del 44esimo anniversario della scomparsa di Hendrix e, insieme a “Get On Up”, biopic su James Brown, è uno degli appuntamenti cinematografici più attesi della seconda metà dell’anno.



Jimi Hendrix: Innocence & Experience - Intervista con Gered Mankowitz

In occasione della mostra fotografica <i>The Experience: Jimi Hendrix at Mason’s Yard</i>, che rimarrà aperta eccezionalmente fino al 20 maggio, Gered Mankowitz ci ha parlato della sua carriera, delle due session fotografiche con gli Experience, della sua personale visione di Jimi e dell’immagine dell’artista.

In occasione della mostra fotografica The Experience: Jimi Hendrix at Mason’s Yard, che rimarrà aperta eccezionalmente fino al 20 maggio, Gered Mankowitz ci ha parlato della sua carriera, delle due session fotografiche con gli Experience, della sua personale visione di Jimi e dell’immagine dell’artista.
 
Se amate la musica è decisamente molto probabile che vi siate imbattuti in alcuni dei suoi scatti: con una carriera che si estende dai primi anni ’60 ad oggi, Gered Mankowitz è uno dei più grandi fotografi musicali di tutti i tempi. Rolling Stones, Marianne Faithfull, Yardbirds, Joe Cocker, Kate Bush, Eurythmics, Billy Idol, Snow Patrol e Oasis sono soltanto alcuni tra gli artisti che sono passati davanti al suo obiettivo.
Lo abbiamo incontrato presso la Wall of Sound Gallery di Guido Harari ad Alba, inaugurata all’inizio di quest’anno e già meta irrinunciabile per ogni appassionato che voglia concedersi una full immersion tra le più belle immagini di musica mai realizzate.
In occasione della sua mostra The Experience: Jimi Hendrix at Mason’s Yard, che rimarrà aperta eccezionalmente fino al 20 maggio, Mankowitz ci ha parlato della sua carriera, delle due session fotografiche con gli Experience, della sua personale visione di Jimi e dell’immagine dell’artista.

Jimi Hendrix: the boy from Seattle
Alcune delle foto che in questo momento ci circondano sono tra le più note della storia della fotografia musicale e le hai scattate quando avevi soltanto diciannove anni. Ma questo non è stato il tuo debutto, vero?
No, infatti. Ho cominciato con la fotografia musicale nel 1963, lavorando per una band chiamata Chad & Jeremy. Tramite loro ho conosciuto Marianne Faithfull, me ne sono innamorato e le ho chiesto di poterla fotografare. Lei ha accettato e siamo diventati amici. Le foto piacquero molto al suo manager dell’epoca, Andrew Loog Holdam, che era anche il manager dei Rolling Stones, così un giorno mi chiese di fotografarli…
[sua è la copertina dell’album Out of Our Heads publicato nel 1965 dagli Stones, che seguì anche in tour negli USA quello stesso anno, n.d.s.]E poi c’è stato Jimi. Come lo hai incontrato?
Il bassista Chas Chandler era un mio amico e stava per lasciare gli Animals per dedicarsi al management musicale. Collaborava da un po’ con un’agenzia e ci siamo conosciuti così. Mi ha chiamato e mi ha detto “Ho appena portato qui dall’America un chitarrista incredibile, si chiama Jimi Hendrix! Lo faccio suonare domani sera al Bag of Nails a Soho, perché non vieni a conoscerlo? Vorrei che lo fotografassi!” Così sono andato in questo orrendo club e Jimi stava suonando. Non riuscivo a capire la sua musica, non mi ha preso granché, non mi piaceva: la trovavo cupa e troppo forte, ma lui aveva un aspetto fantastico e ho pensato “Wow, quest’uomo è bellissimo, devo fotografarlo!”
Ti è sembrato qualcosa di “nuovo” quando l’hai ascoltato per la prima volta?
Domanda interessante. Non saprei dire, credo che suonasse “nuovo” per le persone che si intendevano di chitarra rock e altri musicisti. Sai, lo guardavi e non capivi come facesse a tirare fuori quel suono! Poco fa ho detto che non mi piaceva la sua musica e credo che non fosse importante. Ciò che contava veramente per me è che comprendessi cosa stava cercando di fare: le cose non devono piacerti per forza, ma devi cercare di capirle e non penso che le due cose vadano necessariamente di pari passo. Quando l’ho conosciuto, ha fatto questa piccola gig a Soho, è sceso dal palco ed è stato letteralmente preso d’assalto dalla gente. Chas ci ha presentato l’uno all’altro e Jimi mi ha chiamato “Sir”! Era un ragazzo tranquillo e umile. Abbiamo organizzato una session fotografica poco tempo dopo e lui è venuto nel mio studio londinese, Mason’s Yard. C’erano solo lui e i due ragazzi della band, Noel e Mitch. Il suo roadie li ha mollati in strada e loro sono venuti su. Indossava la giacchetta militare che si vede nelle foto e aveva una piccola borsa con dentro un’altra splendida giacca di velluto rosa e un mantello. Era dolcissimo ed educato. Ci siamo seduti e ho dato loro da mangiare. Io davo sempre da mangiare a tutti, perché i musicisti hanno sempre fame e non fanno mai colazione perché si alzano tardi! E’ stato tutto molto semplice e piacevole e lui era rilassato e a suo agio. Credo si percepisca dalle foto in cui guarda l’obiettivo che “è con te”. A volte quando guardi qualcuno nelle foto sembra che i soggetti siano distanti, ma lui dava molto alla macchina, in tutte le foto, anche in quelle dove sembra smarrito o un po’ triste. Hai l’impressione di scorgere qualcosa dell’essere umano, non esclusivamente un divo del rock e credo sia questo che rende le foto particolarmente forti. Inoltre era molto divertente! A quell’epoca tutti volevano apparire cattivi, suggestivi e sexy, quindi era vietato sorridere, ma lui continuava a farlo. Però le foto in cui sorride non sono mai state usate perché nessuno voleva promuovere quell’immagine all’epoca.
Circa sei settimane dopo ho ricevuto una telefonata da Chas che mi diceva che avrei dovuto fare un altro servizio fotografico con la band. Chiesi cosa ci fosse che non andava con le foto che avevo fatto e lui disse che non c’era nulla, ma i ragazzi si erano fatti la permanente per somigliare di più a Jimi e quindi le foto andavano rifatte. Anche Jimi aveva cambiato la capigliatura: come si vede nelle foto, nella prima sessione era più scomposta, mentre nella seconda è più afro. Così nella seconda sessione ho fatto delle foto di gruppo e nessuna foto di Jimi da solo, perché quelle andavano già bene.
Dopo le session lo rividi qualche volta nei club. Abbiamo bevuto qualcosa o ci siamo salutati da lontano o altro. Fu sempre molto cordiale.
Nelle foto che vediamo in mostra Jimi era all’inizio della sua carriera. Era ancora “innocente” da un certo punto di vista.
Sì, era un momento estremamente positivo per lui perché Hey Joe era appena uscita. Era stata accolta entusiasticamente dal pubblico e stava scalando le classifiche. Era sul punto di avere una vera hit! Nessuno ancora sapeva quanto fosse grande, lui era felice di se stesso, di quello che gli stava succedendo, della sua band. La sensazione era davvero positiva e credo che si percepisca dalle foto.
Jimi e gli Experience hanno un’immagine molto originale. Hai dovuto dir loro come posare o come vestirsi?
No, non lo avrei mai fatto, anche perché questi ragazzi avevano davvero un’idea di come volevano apparire. Se qualcuno viene da me e mi chiede che ne penso, allora do volentieri il mio aiuto, sempre con la massima diplomazia. Quando fai fotografie la relazione col soggetto è molto fragile, perché molte persone non amano essere fotografate. L’altro aspetto è che quasi tutte le persone con cui ho lavorato erano davvero avanti nel concepire la moda, quindi non ero nella posizione di poter dire nulla di simile. Io non sono mai stato una persona molto alla moda, non avrei mai potuto dire “Perché ti sei messo quelle scarpe assurde?”, perché quelle scarpe avrebbero potuto essere il top della moda nel giro di sei mesi.
Semplicemente, concepivo il tutto a livello visivo: se sembrava interessante o bello o fotogenico, allora andava bene. Ogni cosa che Jimi si metteva addosso era bellissima. Ci sono cinque o sei cambi in queste foto: il mantello, le due giacche militari, la giacca di pelliccia, il gilet con la camicia a fiori a motivo cachemire. C’è una giacchetta incredibile: è una vecchissima giacca di velluto edoardiana da donna, molto complessa. Io penso che sembri un fantastico artista classico, come un poeta vittoriano o qualcosa del genere. La indossa con suprema sicurezza.
Ti dirò un’altra cosa. Ho visto alcune immagini di lui a Woodstock: gli abiti erano orribili, cominciava a sembrare uno scarto degli Chi-Lites o roba simile, perché gli facevano i vestiti ed erano bruttissimi. Le ragazze gli confezionavano vestiti orrendi di colori orribili: non funzionava.
Probabilmente perché non sceglieva più i suoi abiti.
Credo che stesse cominciando a cambiare, tutto stava cominciando a cambiare. Sai, la gente gli diceva “Voglio fare degli abiti per te” e lui rispondeva “Sì, certo!” Era così carino, era davvero un brav’uomo.
Poco fa è emerso un aspetto interessante: il rapporto tra te e i soggetti delle tue foto. Com’è cambiato negli anni?
Gli esseri umani non sono cambiati poi così tanto. Consideriamo anche il fatto che parliamo di musicisti che hanno tutti più o meno la stessa età, che si parli del 1965 o del 2000, sono tutti ragazzi di 22-23 anni, forse un po’ più giovani. E alla fine neanche le mode cambiano poi così tanto: forse i jeans possono essere un po’ più attillati o un po’ più ampi, ma fondamentalmente non sono cambiati. C’è una fase in cui tutti gli uomini vogliono apparire fighi, non importa di quale periodo storico parliamo, e fortunatamente c’è un momento nella vita in cui diventi così vecchio che essere figo non importa ed è fantastico, perché sei davvero libero. Questo è qualcosa che la tecnologia non ha cambiato. Il grande cambiamento è che adesso – e suppongo già dalla metà degli anni ’70 – i giovani musicisti hanno questa grande risorsa, ovvero ciò che è stato fatto negli anni ’50 e ’60 (ma prevalentemente ’60). Gli anni ’70 sono stati un periodo strano perché c’è stato il glam rock e poi il punk, erano look forti, teatrali. Ma poi la gente ha cominciato a guardare indietro alle band, volevano essere di nuovo cool e così le band dei tardi anni ’70 e anni ’80 hanno cominciato a farsi fare abiti su misura, più come i completi e i vestiti che indossavano Jimi e gli Stones negli anni ’60. Avevano tutto questo a cui ispirarsi e usare come guida.
Questo per dirti che si può fare talmente tanto con quattro o cinque ragazzi! La tecnologia è un’altra cosa, è tutta una questione tra il soggetto e la fotografia. Oggi tutti pensano di poter fare foto. Il modo in cui il fotografo fa le foto è cambiato, ma il rapporto tra un gruppo e un fotografo professionista non è cambiato granché.
Dev’essere un rapporto di fiducia totale, penso.
Se sei fortunato, è ciò che provi a ottenere. Ho sempre tentato di creare la sensazione che stessimo lavorando insieme, e che io stessi cercando di aiutarli a presentare un’immagine con la quale potessero convivere, cosa sempre molto importante.
Pensi che i cambiamenti che hanno avuto luogo nell’industria discografica abbiano influenzato anche la fotografia musicale in qualche modo?
Non ne sono certo, ma sicuramente il passaggio dal formato del long playing a quello del compact disc ha modificato enormemente il modo in cui i gruppi si presentano. In passato c’è stato un periodo in cui gli artisti a volte si facevano le copertine da soli, come Joni Mitchell o Bob Dylan, ma prima dovevano arrivare a un punto tale in cui la casa discografica avrebbe detto “Hey, va bene, mettiamo un tuo lavoro al posto della tua faccia in copertina”. Oggi quasi chiunque è pratico di computer, sa usare Photoshop e tutti ci giocano per fare copertine, basta che siano in formato cd, il che significa che non c’è bisogno che sia davvero roba di qualità. Un tempo quando facevi la copertina di un disco, questa doveva essere davvero buona e la qualità di riproduzione era così scarsa che dovevi fare qualcosa di extra-forte affinché riuscisse a risultare un buon lavoro nonostante la pessima stampa e l’orrendo cartoncino su cui veniva stampato. Insomma, credo che il rapporto con la tecnologia ci abbia toccati tutti, ma il più grande cambiamento nell’image making sia stato il passaggio al CD, perché poi tutti gli equilibri sono cambiati. Prima in copertina c’era una grande immagine della band e un paio di parole, mentre dopo tutto è cambiato e direttori artistici e designer sono stati coinvolti molto di più.
Ci sono molti artisti, in particolare degli anni Sessanta, come Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin e qualcun altro, che sembra non abbiano intenzione di svanire. Pensi che la loro immagine abbia un ruolo in tutto questo, nel loro diventare sempre più grandi man mano che gli anni passano?
Credo che la musica sia la cosa principale, non si può prescindere da quella. Se la musica ha una grande immagine a cui appoggiarsi, tanto meglio. Un buon esempio è l’immagine di Jim Morrison, una bellissima immagine iconica. Non so quanta buona musica abbiano fatto i Doors, ma di certo ne è sopravvissuta a sufficienza grazie a film e altre ragioni, e quell’immagine ora è nella testa di tutti. Con Jimi è sempre stata la musica la forza trainante, perché per vent’anni le sue immagini sono state orrende, è stato l’artista più maltrattato di tutti in tal senso. Ma la musica è sopravvissuta e centinaia di migliaia di persone l’hanno scoperta, in un modo o nell’altro. Poi nel ’92 il suo manager e amministratore del suo patrimonio artistico, Alan Douglas, un uomo folle e brillante, ha ritenuto che fosse necessario creare un’immagine globale e più armonica di Jimi Hendrix e che questo fosse il modo per bloccare la circolazione di artwork mal presentato e inadeguato. Parlo di persone che pensavano di aver fatto della grafica eccezionale per Jimi e stavano invece facendo cose orripilanti. Mi ha telefonato e mi ha detto di voler creare dell’arte basata sull’immagine di Jimi. Io ho risposto “Aspetta un attimo, l’ho appena fatto!” All’epoca avevo appena realizzato due serigrafie col mio amico David Koster, così gliele ho mostrate e ne ha fatto la copertina di un album intitolato The Ultimate Experience. Quella, per quanto ne so, è stata la prima volta che Jimi ha avuto un’immagine equilibrata e globale e una vera promozione, e questo ha improvvisamente cambiato tutto.
Lavori ancora per l’industria discografica? Di cosa ti stai occupando?
Quello che vedi qui mi occupa quasi a tempo pieno. Faccio nuove immagini, stampe, evado gli ordini, spedisco immagini alle riviste e ai giornali, programmo mostre, faccio libri, lavoro con svariate persone, cerco di trovare nuovi modi per presentare il lavoro. È la mia occupazione principale e allo stesso tempo realizzo delle immagini personali sperimentali che non hanno niente a che fare con la musica e le persone, e di cui quest’anno realizzerò una mostra per la prima volta.

Queste immagini di Jimi sono eterne: oltre alle foto così come le hai realizzate all’epoca e come le conosciamo, in mostra ci sono delle stupende immagini rielaborate che sembrano dargli nuova vita.
Una delle ragioni per cui ho realizzato queste immagini – ciò che io chiamo recreations delle immagini – è che voglio dar loro un’atmosfera contemporanea, un tocco più artistico. Amo la fotografia e vorrei sempre avere foto pure, tradizionali e classiche, ma mi piace il mix. Inoltre ci sono persone che non vogliono lavori in bianco e nero, ma colore e io amo sperimentare con diverse interpretazioni.
Alcuni mi chiedono “Non ti preoccupa il fatto di lavorare con fotografie che hai fatto cinquant’anni fa?”, ma non mi preoccupa affatto. Forse dovrebbe, non so! Sai, entro in questa stanza e mi entusiasma, mi piace. Vedo la reazione delle persone ed è elettrizzante, entusiasma anche me e penso che sia davvero bello.
 
La mostra include alcune tra le foto più celebri del primo Hendrix come pure scatti inediti, realizzati nel 1967 presso lo studio di Gered Mankowitz a Mason’s Yard, nel cuore di Londra.
Oltre al più classico bianco e nero, è possibile ammirare immagini dalle splendide cromie, rielaborate e impreziosite con l’uso di tecniche come la serigrafia, l’uso di carte metallizzate, scatole luminose e stampe lenticolari tridimensionali anche in grandi formati, per un’esperienza visiva che non può essere in alcun modo essere resa a parole. Non perdetevela!




Hendrix non si tocca (anche quando è scordato)

Tutt'a un tratto arriva Marty Friedman e dice: "preferisco masticare delle schegge di vetro che ascoltare un disco di Jimi Hendrix". Apriti cielo, perché Jimi non si tocca a prescindere, come Gilmour, come Blackmore, come SRV e BB King. 
 
Indignazione alle stelle. Insulti. Sarcasmi. "Preferirei ascoltare due ore di rutti e scoregge di Hendrix che una delle tue feste immobili di masturbazione". Sconcerto. 
Mannaggia. Premesso tutto l'amore per i mostri sacri, consapevoli che Hendrix e tutti gli altri sono un punto fermo nella storia della musica, resta il fatto che quando un musicista del calibro di Friedman dice una cosa così in un'intervista, la persona intelligente non si indigna, ma cerca di capire. 
 
A leggere bene ci si accorge che il concetto non è nuovo, ma risale al 2009, quando Marty rilasciò l'intervista originale di cui quella più recente, uscita per lanciare il suo nuovo tour, è in gran parte un copia-incolla. Se oggi fa più scalpore è merito (o colpa?) della crescita smisurata dei social media e del brutto vizio di decontestualizzare. Si stacca la frasetta "I'd rather chew glass than listen to Hendrix" da un'intervista fiume e la si butta su Twitter ben condita dall'indignazione. Dannata Rete.
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle
 
In realtà l'ex chitarrista di Cacophony e Megadeth non fa una polemica alla Keith Richards di "Sgt. Pepper è spazzatura", ma si limita raccontare la sua storia di chitarrista rock ad altissimo livello e a sintetizzarla usando Jimi come esempio. Comparso con i Cacophony assieme all'altro astro Jason Becker, ha le proprie radici musicali nel punk, inclusa la reazione al mondo hippie ("I never got Hendrix. When I think of Hendrix, an image comes in my mind about a lot of hippies rolling around in mud tripping on acid and it just doesn't turn me on at all"). Marty non rinnegherà mai il punk (all'audizione per i Megadeth si presenta con la maglietta dei Ramones), ma lo supera, in una ricerca della perfezione tipica del chitarrismo metal anni ’80. Nella selva di chitarristi che in quegli anni si limitavano a inseguire le acrobazie di Paganini sdoganate da Malmsteen, Friedman si distingue con un utilizzo originale delle sonorità orientali - di cui è tanto appassionato da trasferirsi in Giappone - e arriva ai vertici della rivoluzione shred.
Rust In Peace, disco apice dei Megadeth, è un album ancora oggi standard di perfezione esecutiva dell'era pre-digitale. Marty piazza ritmiche impossibili e scrive uno dei miglior assolo della chitarra heavy metal, “Tornado of souls”. 
 
 
Se il legame di Steve Vai col passato è dichiarato dal tatuaggio sul braccio "Bold As Love", con la generazione successiva dei Friedman, Becker, McAlpine il distacco è definitivo. Dal chitarrismo spontaneo, fumato, un po' fricchettone, svolazzante e non necessariamente intonato si passa alla perfezione esecutiva ("I'm like, Play in tune. I'm a big tuning guy and that's probably why I don't like Dylan; things go out of tune and it kills me"). 
 
Marty Friedman è una delle espressioni più significative del distacco della generazione chitarristica degli anni ’80 con quelle dei decenni precenti, plasmate sul carisma e il suono di Hendrix.
Anche dal punto di vista degli strumenti Friedman, come tantissimi altri shredder, snobba le chitarre "vintage" che dall'altra parte del fossato musicale raggiungono quotazioni record. Lui usa strumenti moderni (sarà per più di un decennio un’icona della Jackson) attrezzi efficientissimi che gli consentono di suonare veloce, pulito, di produrre musica di violenza e precisione devastante e - nel suo caso soprattutto - di essere intonato.
 
Jimi Hendrix: the boy from Seattle
 
Perché per Friedman la ricerca dell’intonazione è una peculiarità imprescindibile del chitarrismo. Lui è uno che ha scolpito il suo playing sinistro ed esotico suonando linee melodiche dove le note sono raggiunte con micro bending di semitono e quarti di tono, presi con precisione chirurgica. Inoltre, si è sempre professato fanatico di Brian May e delle sue orchestrazioni a più chitarre, e dai Cachophony ai Megadeth, passando per la sua attuale produzione solista, ha infarcito la sua musica di chitarre armonizzate e unisoni mozzafiato. Perciò, se micro bending, armonizzazioni e unisoni sono i fiori all’occhiello del tuo chitarrismo  (e ti hanno fatto diventare un eroe della chitarra metal) è ovvio che il tuo nemico più grande non può che essere una strato scordata (magari con un single coil che ronza al ponte).
 
E - pur star acclamata - sa anche restare umano. Non ama Hendrix, ma rispetta chi è di un'altra opinione: "But all of my favorite guitarists hail Hendrix: I'm a big Uli Jon Roth fan and he's the most beautiful guitarist. He probably loves Hendrix as much as Hendrix's own mother does. All the guys I respect love Hendrix so I know there's something there, it's just that I never got it because it never fit into my experiences". 
 
Gran personaggio.
 




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