Per una volta non parliamo di Nerdville, di accumulazione seriale, di vintage o di qualsiasi cosa abbia a che fare con la più impressionante (e a tratti assurda) collezione chitarristica che il pianeta abbia conosciuto fino a oggi. Per una volta parliamo anche di musica, perché oltre a tenere tutto ben spolverato fra le varie stanze del suo personale museo, Bonamassa continua a fare musica. Da più di 20 anni a questa parte, con costanza e con una formula che in futuro verrà sicuramente studiata accuratamente.
Il ritorno di Joe, e domande che non trovano risposte
Il blues è vivo o è soltanto un fantasma ben truccato, tenuto in vita da mani sapienti per compiacere il pubblico della tradizione? È la domanda che si riaffaccia ogni volta che un nuovo album, un singolo, una tournée o un evento cerca di rianimare un genere musicale che, per molti, vive una lunga agonia. Eppure, ci sono artisti che continuano a crederci, o quantomeno a investirci con convinzione. Joe Bonamassa è uno di questi.
Il suo nuovo singolo, Still Walking With Me, è uscito pochi giorni fa sotto l’etichetta J&R Adventures. Un brano che, nel solco del precedente Shake This Ground, mostra un Bonamassa rilassato, quasi sereno, capace di raccontare resilienza e riconoscenza con un linguaggio di estrazione vintage, ma mai eccessivamente artefatto. La produzione, firmata dall'onnipresente Kevin Shirley, e la scrittura condivisa con Tom Hambridge (che vanta collaborazioni con Buddy Guy, ZZ Top e Lynyrd Skynyrd), riportano l'ascolto in quella terra di mezzo tra classic rock e soul che rappresenta il vero territorio emotivo dell’artista newyorkese.
La voce di Bonamassa parla di fedeltà, di chi resta quando avrebbe potuto andarsene, e lo fa con quel senso di gratitudine tipico di chi ha attraversato qualche notte troppo lunga. È blues? È rock? È un’ibridazione creata a tavolino per accedere a una nicchia di mercato che Joe non può assolutamente evitare di coinvolgere e soddisfare? Il dubbio resta sospeso, ma la musica pare funzionare.
Il mare, la comunità e l’identità blues
Pochi giorni prima della pubblicazione del singolo, Bonamassa ha chiuso la decima edizione del Keeping the Blues Alive at Sea, una crociera musicale che ha ospitato, tra gli altri, Larkin Poe, Kingfish, Samantha Fish, Joanne Shaw Taylor. Una carovana sonora in mare aperto, a metà strada tra il rito collettivo e il tributo nostalgico, un'operazione che si muove alla perfezione tra cuore e marketing. È difficile non domandarsi, osservando queste celebrazioni galleggianti, se il blues sopravviva davvero oppure venga periodicamente riesumato per soddisfare un pubblico affezionato, e bisognoso di rassicurazioni stilistiche.
Il punto è che Bonamassa continua a credere in una visione collettiva del blues, nel suo potere comunitario. Ecco perché, tra i suoi meriti, c’è quello di aver trasformato la propria carriera in una piattaforma per altri artisti, un catalizzatore di energia che va oltre l’ego (e di certo non poco ingombrante) del guitar hero.

Un cammino discografico lungo vent’anni
La carriera di Joe Bonamassa è, a suo modo, enciclopedica. Con oltre 50 album all’attivo (tra live, studio e collaborazioni) e 28 dischi al primo posto nella classifica Billboard Blues Albums, Bonamassa è riuscito a scolpire, con molti meriti ma anche un po' a forza, la propria figura nel firmamento del blues moderno. Ma il percorso non è stato lineare.
Esordisce nel 2000 con , un album già denso di riferimenti: il titolo, preso in prestito da Jethro Tull, è un manifesto programmatico. Il blues, nel vocabolario di Bonamassa, è sempre stato contaminato dal rock britannico, dal soul, dal funk. Dopo il bistrattatissimo del 2022, i successivi (2004) (2003), (2006), (2007) e (2009) mostrano una progressione sonora coerente in due elementi fondamentali: la chitarra è sempre protagonista e le strutture sono sempre chiuse, chiare e ben riconiscibili.
Quella di Bonamasa è una visione personale del blues, ma è anche molto furba: suona autentica (perché Joe è lo studente per antonomasia, un esperto di suoni con pochi eguali), ma niente si avventura mai in territori troppo rischiosi. È il gioco di chi sa bene dove fermarsi, e forse bisognerebbe cominciare a riconoscere che anche quella, in altri modi, è un'arte.
Nel 2010 arriva , registrato in Grecia con influenze definite mediorientali, le quali si riducono ad una relativamente udibile spolverata di qualcosa che vorrebbe richiamare la tradizione modale del Medio Oriente. E poi ancora (2011), (2012), (2014), (2018), fino a (2021) e (2023)... In quest’ultimo Bonamassa si concede un bilancio, tornando a brani che hanno segnato la sua formazione, ma con uno sguardo maturo, consapevole. Non si tratta di nostalgia, quanto piuttosto di rinnovamento della memoria.
Il blues oggi: tributo o resistenza?
Il problema, però, resta. Il blues è ancora rilevante nel 2025? E, se sì, in che misura, in quali forme e in quali manifestazioni? Le nuove generazioni - e non si sta parlando di quelle che navigano i territori mainstream - sembrano più affascinate dalle derive soul, dal funk o da forme ibride di folk e rock psichedelico. Il blues puro, quello che esige la call and response, le dodici battute, e magari uno slide, oppure un vibrato, che smuova le budella, è ormai un linguaggio da filologo.
La proposta di Bonamassa, pur rispettosa delle radici, è il risultato di un’operazione estetica molto calcolata. Ogni album, ogni video, ogni concerto è prodotto in maniera impeccabile. È blues, ma è soprattutto entertainment. È tradizione votata ad un business che ha molti meriti, ma che sul lato artistico produce poco. Molto poco.
Non è un caso che in molti abbiano sempre preferito il Bonamassa dedito alle cover, a quello che tenta di calarsi nella parte di un redivivo Clapton degli anni '80. Eppure - dando a Cesare quel che si merita - in questo equilibrio instabile, Bonamassa riesce a mantenere un grado di sincerità encomiabile. Non finge di essere un Robert Johnson dei nostri tempi, non si nasconde dietro a un dito, e infatti si cala alla perfezione nei panni dell'interprete postmoderno, consapevole del peso della forma e della funzione.
L’eredità e il futuro
Mentre ci si prepara all’uscita del nuovo album, e alla prossima tournée europea che passerà per teatri storici e arene all’aperto, resta un interrogativo aperto: quanto conta oggi il blues? E quanto, invece, è diventato un codice da replicare per garantirsi una fetta di pubblico fedele?
Joe Bonamassa non fornisce risposte univoche, ma continua a camminare. E lo fa con passo sicuro, sorretto da una comunità che lo segue, lo sostiene, lo celebra. Still Walking With Me non è solo un titolo, ma un’affermazione. Di presenza, di continuità. Di fedeltà – forse – a un linguaggio che, pur trasformandosi, fortunatamente rifiuta di sparire.
Forse il blues non è più la voce del dolore e della protesta, ma la colonna sonora di chi resiste alla volatilità del mercato musicale. E Bonamassa, con tutti i suoi contrasti e le sue contraddizioni, sembra essere uno dei pochi ad averlo capito davvero.
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