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La guerra dei dazi e l’assedio alla chitarra: come le tariffe di Trump stanno cambiando l’industria musicale
La guerra dei dazi e l’assedio alla chitarra: come le tariffe di Trump stanno cambiando l’industria musicale
di [user #65794] - pubblicato il

In un'America che suona sempre più fuori tempo, le chitarre rischiano di diventare vittime silenziose di una guerra commerciale senza accordi né armonie. Tra incontri diplomatici e dazi alle stelle, l’industria musicale statunitense si ritrova sull’orlo di un collasso annunciato. E mentre il presidente della NAMM lancia l’ennesimo grido d’allarme, il futuro vibra su corde sempre più tese.
Mentre il presidente Donald Trump incontra Giorgia Meloni per discutere un nuovo accordo commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea, le tensioni legate alla politica dei dazi continuano a animare la scena economica internazionale. Al centro del dibattito, non ci sono soltanto i grandi comparti industriali, ma anche settori meno visibili eppure strategici per l’identità culturale americana – come quello degli strumenti musicali.

Proprio in questi giorni, la NAMM (National Association of Music Merchants) è tornata a farsi sentire con forza. Il presidente John Mlynczak ha rilasciato dichiarazioni nette, mettendo in guardia l’amministrazione da un potenziale disastro economico e culturale: “Le attuali misure tariffarie minacciano la competitività globale dell’industria musicale statunitense,” ha affermato in un appello rivolto direttamente alla Casa Bianca.

La guerra dei dazi e l’assedio alla chitarra: come le tariffe di Trump stanno cambiando l’industria musicale

Il timing non potrebbe essere più delicato. Con un pacchetto di dazi sempre più aggressivo, che coinvolge materie prime, componentistica e strumenti finiti, la filiera musicale americana rischia di subire un contraccolpo duraturo. E mentre Trump cerca di rafforzare l’asse transatlantico, il tessuto produttivo che alimenta decine di migliaia di posti di lavoro tra liuteria, elettronica, distribuzione e retail è sotto pressione. In un clima segnato da retoriche protezioniste e riforme unilaterali, cresce il timore che le decisioni strategiche vengano prese senza un reale confronto con chi l’industria musicale la vive ogni giorno, tra pedalboard, pickup e tavole armoniche importate dal sud-est asiatico.

Per un approfondimento diretto delle comunicazioni provenienti dalla Casa Bianca: Regulating imports with a reciprocal tariff to rectify trade practices that contribute to large and persistent annual United States goods trade deficits.

Alla luce di tutto questo, le parole di Mlynczak suonano come un monito preciso: “Il nostro settore è profondamente interconnesso. Non possiamo permetterci una politica commerciale che ignori la realtà di una produzione ormai globale.” Nell’attesa di sviluppi concreti dall’incontro tra Washington e Bruxelles, la chitarra – icona culturale e simbolo produttivo – si ritrova in prima linea in un conflitto dove la posta in gioco non è solo economica, ma identitaria.

Protezionismo americano
Negli ultimi mesi, l’amministrazione Trump ha riaperto un fronte economico che pareva assopito: quello delle guerre commerciali a colpi di dazi. Il nuovo pacchetto tariffario, varato all’inizio del 2025 attraverso una serie di ordini esecutivi, ha introdotto aumenti significativi sulle importazioni da Paesi come Cina, Vietnam e Messico, con aliquote che in alcuni casi raggiungono il 145%. Le motivazioni ufficiali ruotano attorno a due concetti cardine: la “mancanza di reciprocità” nei rapporti bilaterali e la “minaccia straordinaria alla sicurezza economica nazionale”. È un approccio che segna un ritorno deciso alla dottrina del protezionismo, con l’intento dichiarato di rilanciare la manifattura americana, riportando posti di lavoro e produzione sul territorio nazionale.

La guerra dei dazi e l’assedio alla chitarra: come le tariffe di Trump stanno cambiando l’industria musicale
Photo credit: Reverb.com

Tuttavia, come in ogni conflitto commerciale, le conseguenze sono tutt’altro che univoche. Settori strategici come quello tecnologico, automobilistico, tessile e agricolo stanno già mostrando i primi segni di contraccolpo: l’aumento dei costi di importazione sta ricadendo su tutta la filiera, dai produttori ai consumatori, con rincari che mettono in discussione la competitività di interi comparti. Il presidente della NAMM, John Mlynczak, ha espresso pubblicamente la sua preoccupazione per il settore degli strumenti musicali: “Le misure adottate mettono a rischio l’impatto economico e culturale degli strumenti musicali statunitensi,” si legge nella sua dichiarazione ufficiale, che accompagna una richiesta formale di esenzione indirizzata all’amministrazione.

Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. Pechino ha risposto con misure analoghe su prodotti agricoli e tecnologici statunitensi, colpendo aree industriali chiave e gettando in allarme le aziende americane esportatrici. Anche il Vietnam, inizialmente rifugio produttivo alternativo alla Cina, è finito sotto il mirino di Washington, con nuove tariffe al 46% che rischiano di vanificare i recenti investimenti occidentali nell’area. Il Messico, partner essenziale nelle catene di fornitura nordamericane, è coinvolto in modo altrettanto sensibile: qui le tariffe colpiscono soprattutto componentistica industriale, auto e alimentari.

Settori trascurati, ma vulnerabili: il caso degli strumenti musicali
Gli effetti a catena iniziano a toccare anche settori meno evidenti ma non per questo marginali: elettronica di consumo, editoria, moda, e ovviamente strumenti musicali. Proprio quest’ultimo ambito, tradizionalmente legato all’esportazione e all’importazione di componenti altamente specializzati, è tra i più vulnerabili. Il caso della chitarra elettrica – dove componentistica asiatica, lavorazioni messicane e assemblaggio statunitense convivono in una delicata simbiosi – è emblematico di come l’economia globale moderna sia interconnessa e difficilmente riducibile a logiche di produzione nazionale. A pagarne il prezzo, almeno nel breve periodo, non sarà solo il produttore o il distributore, ma soprattutto il consumatore finale, che vedrà aumentare i prezzi di beni finora accessibili, e con essi la soglia d’ingresso a molti settori, musica compresa.

Le chitarre “made in USA” sono raramente, davvero, fatte interamente negli Stati Uniti. Le grandi aziende del settore – da Fender a Gibson – basano la propria competitività su un equilibrio complesso: realizzano i modelli di fascia alta sul territorio nazionale, ma importano buona parte dei componenti dai mercati asiatici. Sempre il presidente della NAMM lo ha ribadito con chiarezza: “La ragione per cui possiamo permetterci di costruire strumenti di fascia alta in patria è perché abbiamo entrate derivanti da prodotti mid-level ed entry-level fabbricati all’estero.
Questo principio vale tanto per i colossi dell’industria quanto per i marchi boutique. Joe Morgan, fondatore del marchio Morgan Amps, ha dichiarato che l’effetto immediato dei nuovi dazi sarà un incremento di circa 1000 dollari sui suoi amplificatori. Una cifra che, per un’azienda artigianale, può trasformarsi in una condanna a morte commerciale.

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Il paradosso della manifattura americana
A chi obietta che le tariffe stimoleranno una rinascita della manifattura statunitense, Mlynczak risponde con pragmatismo: “Il nostro settore è altamente specializzato. Non è possibile semplicemente inviare un disegno CAD a un’altra fabbrica dall’oggi al domani. Le nostre aziende non possono spostare la produzione con rapidità e non lavorano con margini elevati.
Lo scenario è particolarmente allarmante se si considera che il 43% degli strumenti importati negli USA proviene dalla Cina. Un’altra quota consistente – il 26% – arriva dal Vietnam. Entrambi i paesi sono oggi soggetti a dazi che ne compromettono in maniera drastica la competitività. In alcuni casi, come per i prodotti cinesi, le tariffe superano il 100%, rendendo economicamente insensato qualsiasi tentativo di importazione.

Nel pieno della guerra commerciale, emerge - ovviamente - anche un altro dettaglio paradossale, perché secondo un’inchiesta di un’emittente cinese, le chitarre firmate da Donald Trump – strumenti promossi dal presidente stesso in una campagna al limite dell'assurdo – sarebbero prodotte proprio in Cina. Così come lo erano i famosi cappelli MAGA (make America great again). Un simbolo che riassume bene la distanza tra retorica e realtà industriale.

Fender e l’effetto domino
La crisi è già tangibile. Fender ha visto la propria valutazione di credito declassata da Moody’s, con costi operativi previsti in crescita di circa 20 milioni di dollari. L’azienda, come altre, si è già dovuta adattare in passato alle normative “made in USA”, modificando l’etichettatura dei propri strumenti. Non si legge più “Made in USA” sulla paletta, ma “Corona, California”, una dicitura più neutra che riflette la realtà di una produzione distribuita tra USA, Messico, Cina e Indonesia.

Dazi e debuttanti: un mercato in crisi
Oltre al lato produttivo, i dazi colpiscono duramente anche il segmento entry-level, quello cioè dei chitarristi principianti. Rob Chapman – paladino di Chapman Guitars – sottolinea il rischio: “I modelli economici prodotti in Cina sono il primo passo per tantissimi musicisti. Se questi strumenti diventano troppo costosi o difficili da reperire, perderemo intere generazioni di chitarristi.” E aggiunge: “Non si può rilanciare l’industria se nessuno può permettersi di acquistare il primo strumento.
Il caso della signature di Lee Malia per Jackson è esemplare. Realizzata in Cina e venduta a 899 dollari, ha registrato un sold-out immediato. Il paragone con la SL2DX americana da 2.449 dollari evidenzia la forbice economica sempre più ampia, che rischia di diventare incolmabile con l’aumento dei dazi.

La guerra dei dazi e l’assedio alla chitarra: come le tariffe di Trump stanno cambiando l’industria musicale

Il futuro incerto della filiera musicale
Le stime della NAMM parlano chiaro: le vendite complessive del settore negli Stati Uniti nel 2023 sono state pari a 8,3 miliardi di dollari, con una contrazione del 4% rispetto all’anno precedente. Un calo attribuito alla fine dell’ondata di acquisti post-pandemia, ma che rischia ora di trasformarsi in recessione. “Queste tariffe – osserva Mlynczak – potrebbero causare una vera e propria crisi del comparto strumenti musicali.
Il pericolo è reale, soprattutto considerando la fragilità della catena di fornitura: “Molti dei nostri membri non sopravvivranno a un mercato in contrazione,” avverte Mlynczak. “E noi non possiamo permetterci di perdere quel tessuto industriale che garantisce la varietà e la qualità dell’offerta musicale americana.”

Un'industria in trincea
Volendola vedere in chiave romantica, la chitarra elettrica è da sempre simbolo di libertà, innovazione e - tra le altre cose - accessibilità... È difficile non pensare a come le tariffe imposte dall’amministrazione Trump vadano a soffocare proprio questi principi. I grandi marchi, forti della loro notorietà, cercheranno nuove strategie. Le aziende artigianali, spesso a conduzione familiare, rischiano invece di assorbire il colpo nella maniera peggiore.

L’effetto finale potrebbe essere quello di una polarizzazione dell’offerta: da un lato strumenti elitari, dall’altro un vuoto cosmico nella proposta economica. In un contesto di questo tipo, indovinate un po' chi sarà il vero sconfitto? I chitarristi ed in particolare chi suona per passione, e non per mestiere, costretti a scegliere tra strumenti fuori budget o qualità non certo eccelsa. La guerra commerciale ha un prezzo, e oggi più che mai rischia di essere pagato in musica.
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