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Robben Ford: Bringing It Back Home
Robben Ford: Bringing It Back Home
di [user #17844] - pubblicato il

Lo abbiamo visto passare con scioltezza dal jazz di Miles Davis al rock dei Renegade Creation. Si è mosso con agilità in territori fusion e il blues resta, secondo molti, il suo terreno preferito. Ma ora Robben Ford imbraccia una Epiphone Riviera che, come una macchina del tempo, lo catapulta dritto nella musica nera degli anni '60, tra rhythm and blues e soul.
Lo abbiamo visto passare con scioltezza dal jazz di Miles Davis al rock dei Renegade Creation. Si è mosso con agilità in territori fusion e il blues resta, secondo molti, il suo terreno preferito. Ma ora Robben Ford imbraccia una Epiphone Riviera che, come una macchina del tempo, lo catapulta dritto nella musica nera degli anni '60, tra rhythm and blues e soul.

Con Bringing It Back Home, nuovo album solista in uscita il prossimo 18 febbraio, il virtuoso californiano sembra voler dimostrare che si può continuare a essere dei grandi, a ben 61 anni d'età, anche senza dare continua prova delle proprie competenze tecniche.
Robben abbandona il ruolo di sideman nel quale si è spesso ritrovato durante la sua carriera e si discosta anche da quello di guitar hero che - di certo non a torto - il tempo gli ha cucito addosso. In Bringing It Back Home, Ford è chitarrista, cantante, compositore, arrangiatore, ma soprattutto membro di una band.

Robben Ford: Bringing It Back Home

È chiaro fin dalla prima traccia che i musicisti in ballo sono tutti di alto livello e che nessuno pretenderà di mettersi in mostra più di quanto non sia funzionale al prodotto finale.
La chitarra ritmica di Robben si poggia con gran groove sulla batteria di Harvey Mason e il contrabbasso di David Piltch riempie di un legnoso pizzicato old school il connubio. L'organo di Larry Goldings e il trombone di Steve Baxter si incastrano alla perfezione poco dopo. È tutto un fluire di brevi frasi di contorno alla voce, ora botte e risposte con la chitarra, ora con l'organo e ora arrivano dei kick di trombone. È proprio all'ottone che viene riservato il primo assolo dell'album, sul ritmo rilassato di "Everything I Do Gonna Be Funky", ma ci vuole poco perché la Epiphone subentri con tanto gusto, pochi tecnicismi e un suono arioso, vintage, appena increspato, uscito direttamente da un vinile degli anni '60.
Pochi minuti e la testa non smette di andare a tempo, molleggiata avanti e indietro col collo.

Ma in un album di Robben Ford, inutile negarlo, l'attesa maggiore è per quelle magiche dodici misure con cui molti chitarristi hanno imparato ad amare la sua chitarra e il suo fraseggio ruffiano, apparentemente semplice ma con dietro tanta armonia tutta da approfondire. Tutto questo non tarda a presentarsi né mancherà di offrire dei bis lungo la tracklist, e già il secondo brano è un blues tutto dedicato a lui. Ancora una volta l'equilibrio all'interno della band è evidente. La chitarra è sì solista indiscussa, ma non annoia nemmeno un profano, bensì diventa parte integrante dell'arrangiamento e il suo suono, riverberato e carico di ambiente come quello degli altri strumenti per l'intero disco, si veste di un fascino "live" irresistibile, per chi ama il genere.

Quando subentra il riff di contrabbasso e trombone in "Fair Child" o quando, più in là, si incastrano gli obbligati ritmici di "Sick Capers Blues", ci sarebbe da giurare che dietro i microfoni c'è una band di colore intenta a registrare la colonna sonora per una sit com americana d'altri tempi. I ritmi scanzonati carichi di groove e i suoni talvolta sfrontatamente ironici sono l'inconfondibile marchio del vecchio rhythm'n'blues e non abbandonano mai la verve della band, eccetto nei lenti come "Oh, Virginia", dove tappeti di organo e trombone riempiono il background e la voce educata e brillante di Robben appare particolarmente indicata.

La chitarra di Robben diventa più grossa quando decide di eseguire tutto il tema di "On That Morning" con le dita e raddoppiato all'ottava. Sulla ritmica lenta e spoglia, la mente vola ai grandi della chitarra jazz e, quando il solo ha inizio dopo l'ampio spazio concesso all'organo, il fraseggio forbito conferma l'impressione.

La pausa strumentale è breve, e presto il cantato torna a rendere l'album un ascolto piacevole anche per l'utente meno impegnato, in cerca di una ricca collezione di musica nera anni '60 condita da del buon blues alla Ford.


Bringing It Back Home non rappresenta alcuna innovazione stilistica o tecnica per la carriera di Robben Ford né intende farlo, è piuttosto un salto nel passato storicamente corretto ai minimi dettagli che un amante del sound di riferimento non può ignorare.
Con arrangiamenti piacevolmente istintivi e il contributo gustoso di contrabbasso, organo e trombone, Robben dà una lezione di stile a tutti i suoi colleghi. "Gli anni '80 degli assolo funambolici sono finiti da un pezzo", sembra trasmettere la sua Riviera, spogliata di qualunque protagonismo superfluo e ridimensionata a complemento di una ensemble equilibrata, dove il fine ultimo è la musica. E che musica!
album robben ford
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