“I Really disliked school, disliked groups, disliked authority: I was made for rock’n’roll” “Detestavo in modo assoluto la scuola, detestavo i gruppi del college, detestavo l’autorità: ero fatto per il rock’n’roll”
(Lou Reed)
Nel 1981, avevo dodici anni, mi capitò un singolare incidente che, in un certo senso, mi avrebbe cambiato la vita. La serratura di una porta di casa si inceppò e rimasi chiuso in una stanza per qualche ora, prima che mio padre, tornato dal lavoro, venisse a liberarmi. In quella stanza mio fratello maggiore aveva lasciato un registratore con dentro una cassetta che ascoltai per tutto il tempo in cui rimasi rinchiuso: era l’album “Rock’n’Roll Animal” di Lou Reed. Da quel momento capì che la musica sarebbe diventata una componente imprescindibile della mia vita. In realtà, non era tanto la musica ad avermi colpito. Quello che mi aveva realmente impressionato era l’attitudine che c’era dietro quelle semplici canzoni fatte di tre o quattro accordi. Come Jenny, il personaggio del testo del brano che chiude il disco, avevo scoperto una musica nuova che sarebbe entrata in perfetta sintonia con il ritmo della mia vita. Avevo abbracciato una musica dallo spirito libero che mi avrebbe inevitabilmente portato lontano dai binari di una vita che qualcun altro era pronto a pianificare al mio posto; non avrei più potuto accettare un progetto di vita predigerito dagli schemi e dai valori di una società in cui sin da allora non mi riconoscevo. Lou Reed ha usato il rock’n’roll come mezzo espressivo pienamente maturo e consapevole traghettandolo, da una dimensione di mero “intrattenimento adolescenziale” ad autentica attitudine di vita. Lou, come gli MC5 ed altri musicisti della sua generazione, ha riscattato lo spirito di un rock’n’roll tradito dall’immagine di Elvis addomesticato con un’uniforme militare addosso, riportandolo alla sua naturale vocazione indomita e anarchica. Lou, con la benedizione di Andy Warhol, ha conferito al rock’n’roll piena dignità di forma d’arte. Le decine di meravigliose canzoni che Lou Reed ci ha lasciato dimostrano che la musica, se supportata da contenuti ed attitudine, può avere una carica comunicativa sconfinata anche in una forma estetica dalla semplicità disarmante. Lou ci ha insegnato che una canzone fatta con due accordi scarni, essenziali e reiterati può trasmettere più di un’intera sinfonia pomposa e pretenziosa. La sua arte e la sua estetica a qualunque livello erano sempre permeati di una sobrietà ricca di stile. Lou Reed era una sorta di “magister elegatiae” della musica: il piatto della bilancia con cui misurare il “rock” dello star system, fatto di lustrini, paillettes, presentazioni altisonanti ed effetti di fumo che nascondono soltanto una sconcertante banalità ed una vacuità mentale imbarazzante. Da questo maestro ho appreso il mio modo di vivere e giudicare l’arte e la musica, indipendentemente dalle differenze tra i generi.. A partire da un’indimenticabile concerto al circo Massimo di Roma nel settembre del 1983, ho avuto la fortuna di vedere Lou Reed in concerto abbastanza volte da averne perso il conto. Ma Lou Reed ha saputo permeare il mio immaginario di adolescente tanto da averlo visto suonare ancora più volte nei miei sogni. Uno di questi sogni ebbi anche occasione di raccontarglielo: Bob - “eravamo nella stessa stanza e mi toccava la grande responsabilità di mettere della musica di sottofondo in tua presenza... nel sogno sceglievo un disco di Lightnin’ Hopkins”. Lou - “I love Lighnin’ Hopkins” Bob - “Allora i sogni non sbagliano mai!” Lou - “Sure” La notizia della sua morte mi giunge mentre sono impegnato per le registrazioni del terzo album dei Dirty Trainload, la mia band; se oggi sono un musicista lo devo a Lou.
Bob Cillo
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