di redazione [user #116] - pubblicato il 17 febbraio 2014 ore 08:30
Parliamo di improvvisazione nel fraseggio blues con Tommy Emmanuel.
Diteggiature, scale, esercizi e note restano fuori dalla discussione. Sotto le lente del microscopio la nostra capacita di tradurre sulla chitarra ciò che cantiamo.
Parliamo di improvvisazione nel fraseggio blues con Tommy Emmanuel. Diteggiature, scale, esercizi e note restano fuori dalla discussione. Sotto le lente del microscopio la nostra capacita di tradurre sulla chitarra ciò che cantiamo.
Emmanuel è un musicista versatile, aperto a molte contaminazioni e profondamente legato alla tradizione blues.
Brani del suo repertorio come “Sanitarium Shuffle” lo confermano e lo dimostrano un chitarrista assolutamente credibile e sopra la norma anche in questo genere.
Gli abbiamo chiesto quale sia il suo approccio all’improvvisazione blues:
"Quando suono blues non penso mai alle scale o alle note. So di usarle, ma non so come chiamarle. Quando improvviso cerco sempre di suonare quello che mi canto in testa, ed è la cosa che funziona meglio secondo me. Invece che usare pattern prestabiliti e soffermarmici, preferisco cantare quello che mi viene in mente e suonarlo.”
Per Emmanuel cantare pare essere il ponte diretto e più immediato tra la nostra creatività e la sua concretizzazione in suono.
Cogliere a fondo questo concetto è importante per iniziare a pensare diversamente alle nostre improvvisazioni. Serve capire quanto maggiore potrebbe esserne lo spessore artistico di un’improvvisazione se questa partisse dal tentativo di riprodurre con la chitarra delle melodie che noi immaginiamo e ci figuriamo come piacevoli. Spesso invece, nell’improvvisazione non si fa altro che spostarsi in maniera più o meno meccanica e più o meno ordinata, tra scale, pattern, frasi che sappiamo funzionare armonicamente e correttamente sopra una base.
Non ci sono dubbi sul fatto che Tommy Emmanuel conosca a menadito ogni scala con le relative note blue, settime, none, e chi più ne ha più ne metta. Il chitarrista sostiene, però, che nel momento in cui si trova a comporre o a dover dire qualcosa di suo che non sia un esercizio o un esempio, si affida solamente alla sua musicalità.
Questo approccio è senz’altro difficile da applicare per chi non ha mai provato. Ma è prezioso perché aiuta a slegarsi dal pensare esclusivamente come chitarristi per avvicinarsi a un approccio legato alla musica in maniera più ampia e globale.
Facciamo un esperimento: se dovessimo canticchiare liberamente una melodia inventata sopra un giro di accordi affidandoci solamente alla nostra voce, stonati o intonati, le nostre corde vocali non intonerebbero subito una pentatonica o una scala cromatica, se non per una precisa volontà.
Canteremmo piuttosto un passaggio tra note anche distanti, con le relative pause dovute alla respirazione mescolando nella più totale libertà e inconsapevolezza arpeggi, triadi, scale, modi. Elementi che in un’improvvisazione più razionale e chitarristica si rischia quasi sempre di esporre in maniera accademica.
Viceversa, cercare di riprodurre sulla chitarra quanto si è cantato ci porterà a scoprire approcci e commistioni di note totalmente nuove rispetto a quello che suoniamo di solito. Con un ulteriore enorme vantaggio. Suoneremo cose che abbiamo creato noi lavorando concretamente alla crescita e personalizzazione del nostro playing.
Cantare ci aiuterà anche a slegarci con più facilità dai punti di attracco sicuri, come tonalità o accordi, lasciando che sia solo il nostro senso musicale a parlare per noi e a guidarci.
Approccio magnifico per scoprire sonorità nuove e assimilarle subito alla chitarra.
Ovviamente questo non va inteso come un allontanarsi dalla pratica tradizionale delle pentatoniche, delle scale, degli arpeggi o della teoria, anzi.
Si tratterà piuttosto di sfruttare al meglio quello si è studiato, integrandolo con un approccio più musicale.
Esercitarsi con quest’approccio ha come obbiettivo quello di ridimensionare la tecnica e la teoria, facendocele percepire come semplici strumenti per agevolarci nel ricreare sulla chitarra quello che abbiamo cantato.
Del resto, oltre a Tommy Emmanuel, supportano questa tesi tanti altri chitarristi giganteschi Matt Schofield, Paul Gilbert e Guthrie Govan: “Faccio solo una cosa quando improvviso: cerco di suonare quello che canterei.”
Traduzione e analisi stilistica di Paolo Antoniazzi