di LaPudva [user #33493] - pubblicato il 01 aprile 2014 ore 07:30
Con una carriera che abbraccia quattro decenni, Michael Baker ha fatto del low profile la propria cifra umana, ma non si può che rimanere allibiti scorrendo le esperienze accumulate nel suo lungo percorso professionale. Lo abbiamo incontrato negli House of Glass Studios di Viareggio, dove, con la classe e l’umiltà che lo contraddistinguono, ci ha raccontato qualche capitolo di una vita costellata di musica, di incontri e di viaggi e che è ancora tutta in divenire.
Il mondo del music business è popolato da una fauna estremamente variegata di musicisti. Ci sono nomi arcinoti alla maggior parte del pubblico di appassionati e ci sono professionisti che rifuggono la ribalta, ma che contribuiscono nondimeno a capitoli imprescindibili della musica, dando il proprio prezioso apporto a produzioni discografiche e live di artisti di fama mondiale. Il batterista Michael Baker appartiene senza dubbio alla seconda categoria: con una carriera che abbraccia quattro decenni, ha fatto del low profile la propria cifra umana, ma non si può che rimanere allibiti scorrendo le esperienze accumulate nel suo lungo percorso professionale. Lo abbiamo incontrato negli House of Glass Studios di Viareggio, dove, con la classe e l’umiltà che lo contraddistinguono, ci ha raccontato qualche capitolo di una vita costellata di musica, di incontri e di viaggi e che è ancora tutta in divenire.
Federica Pudva: Com’è nata la tua passione per la musica? Vieni da una famiglia di musicisti? Michael Baker: A dire il vero no. Mio nonno era un pastore e ricordo che da piccolo, benché non amassi particolarmente la chiesa, adoravo guardarlo predicare e ascoltare la musica gospel. Non vedevo l’ora di immergermi in quel mondo ritmico, in quell’atmosfera e in quella concitazione, tra le persone che cantavano. Sembrava di ascoltare la band di James Brown! Non puoi dimenticare quel beat. Ha avuto una grande influenza su di me.
FP: Quando hai scelto la batteria come tuo strumento? MB: Credo sia successo quando ero molto piccolo. Mio padre era di stanza in Giappone e vivevamo lì. Non ricordo con esattezza, ma credo che la mia prima batteria siano state le pentole! I colori e i toni di ogni pentola a contatto coi cucchiai avevano una sorta di significato per me, mi risuonavano dentro. Penso che tutto sia cominciato in quel modo e dopo ho voluto dei bonghi. Tuttavia, in quella fase non credo di aver pensato alla batteria in particolare quanto piuttosto alla musica in generale. Poi ci sono dei momenti nella vita in cui finisci col fare delle scelte, anche quando sei molto piccolo.
FP: Che tipo di educazione hai avuto? MB: Ho studiato alla North Texas State University. Un certo numero di musicisti che poi hanno avuto successo sono andati lì. Io e Gregg Bissonette eravamo studenti insieme e per un certo periodo eravamo inseparabili. Era un ambiente molto competitivo e per me, che sono nato e cresciuto a Duluth nel Minnesota, trovarmi in un’università così grande è stato quasi scioccante. Ma era un bellissimo posto con un programma di studi musicali incredibile.
FP: Quello non è stato il primo step della tua formazione musicale, però. MB: No, prima di andare alla North Texas ho avuto una band rock a Duluth per circa cinque anni. Si chiamava M.A. Free Press ed eravamo organizzatissimi: avevamo impianto P.A., luci, un paio di roadies e viaggiavamo per tutto il Minnesota e il Wisconsin suonando presso università, posti grandi, facendo da opening act per gruppi famosi. Poi, però, ho scelto di andare all’università per studiare jazz. Non so neanche il perché, ma credo che fosse la cosa da fare.
FP: Quindi sei passato dal rock al jazz! MB: Sì. Avevo un paio di casse, un set enorme. A quell’epoca stavo studiando lo stile di Billy Cobham e mi comprai l’esatta replica del suo kit per la mia band rock. Quando ho deciso di proseguire gli studi, ho scelto un’università statale. Siccome mio padre viveva in Texas, ho potuto usufruire della in-state-tuition (rette più basse per i residenti nello stato, n.d.r.).
FP: E poi hai avuto esperienze con alcuni grandi del jazz, a partire da Clark Terry. MB: Tutto è cominciato grazie al mio direttore di banda delle superiori, Jim Stellmacher. Vide che avevo un certo potenziale e voleva assicurarsi che io avessi una chance di uscire dal Minnesota per realizzarmi. Portò Clark Terry come clinician nella nostra scuola quando avevo 13 o 14 anni ed ebbi l’opportunità di fare qualche assolo in quell’occasione. Tempo dopo, quando ero alla North Texas, Terry fece delle audizioni per la sua band, con la quale avrebbe fatto un tour in Europa. In quella lineup c’erano Branford Marsalis, Byron Stripling, Conrad Herwig, gente che poi ha fatto strada. Clark si ricordò di me dai tempi della scuola e entrai nella band. Fu la prima volta che vidi Roma e Palermo! Fu eccezionale.
FP: E poi sei passato di collaborazione in collaborazione… MB: Dopo quell’esperienza sono tornato alla North Texas, ma quando te ne torni indietro da un tour poi senti la nostalgia della strada, vuoi tornare on the road. Così ho accettato di suonare per Jessy Lopez, il fratello di Triny Lopez, che all’epoca era una grande star in America. Una sera finimmo a suonare ad Atlantic City in un grande club di proprietà di Hugh Heffner, il fondatore di Playboy. Per caso lì ho conosciuto Frankie Randall, una star degli anni ’50 che ha registrato per la RCA e che, dopo avermi sentito, mi assicurò che se mai fossi passato da Los Angeles avrei avuto un lavoro garantito con lui. Lo presi in parola e tempo più tardi mi trasferii a Los Angeles dai miei nonni, a Boldwin Hills. Lo chiamai e mi chiese di raggiungerlo in un club italiano riservato, senza insegna sulla porta, dove si riunivano musicisti, attori, registi e personalità dello spettacolo. Ricordo di aver visto Frankie Valli, Don Knotts, gente del film di Rocky e altri. A fine serata, dopo che il batterista di Frankie se ne andò, mi fecero suonare un pezzo. Lincenziarono il batterista ed ebbi il lavoro. Suonai lì con Randall per circa un anno.
FP: E poi che successe? MB: Clark Terry voleva che lo raggiungessi a New York, ma la città non faceva per me, così parlò di me a Snooky Young, grande trombettista che suonava al Tonight Show. Prendeva note altissime, suonava il repertorio di Count Basie, cose di Sinatra ecc. Lui a sua volta mi fece conoscere Mercer Ellington, il figlio di Duke Ellington che diresse la band del padre dopo la sua morte, così feci un paio di gig a Las Vegas con la Duke Elligton’s Band. Quando avevo circa 24 anni, uno show di Broadway intitolato Sophisticated Ladies stava per fare il suo debutto a Los Angeles. Era un cast all star: Bobby Bryant e Waymon Reed alla tromba, Buster Cooper e Jimmy Cleveland al trombone, una ragazza incredibile alla chitarra, Emily Remler, alcuni tra i più incredibili musicisti che avessero suonato con Duke Ellington. Gregory Hines era la star dello spettacolo e chiamò suo cognato a suonare la batteria. Io venni assunto come relief drummer (batterista supplementare, n.d.r.), cioè ero stipendiato per stare tutte le sere a bordo palco e intervenire in caso di problemi. Ero un ragazzino e mi trovavo a fare prove con grandi ballerini e intrattenitori di quell’epoca: Paula Kelly, Dee Dee Bridgewater, Hinton Battle, i Nicholas Brothers. Rimasi lì per un anno e fu un’esperienza incredibile, anche se suonare jazz non era esattamente quello che volevo fare.
FP: Hai suonato anche con Joe Zawinul. Come vi siete incontrati? MB: Ci è voluto molto tempo. Ho visto per la prima volta i Weather Report quando mi sono trasferito a Los Angeles. Poi Joe ha riformato la band con Omar Hakim, Victor Bailey e naturalmente Wayne Shorter. Ricordo di averli visti al Beverly Theatre di Beverly Hills e uscii con la coda tra le gambe. Non avevo mai sentito nessun batterista suonare così! Non avevo mai sentito nessuno suonare così! Joe Zawinul era l’apice di ciò che si potesse realizzare musicalmente. Se suonavi con lui, dovevi essere al top. All’epoca lavoravo nell’ambiente jazz con Jimmy Smith, Stanley Turrentine, Kenny Burrell e altri da cui c’era tanto da imparare. Cominciai a ricevere chiamate da un tastierista e pianista che mi lasciava messaggi in segreteria: “Ciao, mi chiamo Will Boulware e suono con un chitarrista che si chiama Scott Henderson”. Aveva un forte accento dell’ovest, molto country, e non intendevo rispondere perché non ero interessato al country ma una volta risposi e mi fregò! “Stiamo facendo le prove nella Valley, perché non ci raggiungi? C’è Scott Henderson, Ed Mann alle percussioni” – aveva suonato con Frank Zappa – “e Roscoe Beck al basso” e, per fartela breve, fu così che entrai nella Scott Henderson Band. Sarà stato il 1984. Facemmo più prove che serate, poi Roscoe lasciò la band perché voleva dedicarsi alla carriera della moglie (Jennifer Warnes, che ottenne molto successo con la hit “Up Where We Belong” cantata in coppia con Joe Cocker, n.d.r.) e Bill si trasferì a New York. Gary Willis, un mio amico della Texas State, si trasferì a Los Angeles e lo introdussi nella band e Scott si innamorò del suo modo di suonare: fu così che nacque la primissima lineup dei Tribal Tech. Poi mi concentrai più sul pop e sul funk e Scott mi informò che avrebbero preso qualcun altro, pensando non fossi più interessato. Circa un anno più tardi, mi chiamò per informarmi che Zawinul stava provando alcuni batteristi e venni invitato a casa di Joe a Malibu a suonare. Fu così che entrai nei Zawinul Syndicate con Joe, Scott Henderson, Gerald Veasley e Bobby Thomas Jr. Joe era avanti anni luce. Io facevo jazz, avevo suonato tanto con Jimmy Smith, non riuscivo ad abituarmi al click, e quel primo anno con Joe fu difficile, perché lui era un maestro del ritmo. Fu un’esperienza formativa incredibile, imparai moltissimo. Abbiamo suonato insieme per circa tre anni, ha lasciato che rimanessi per tutto quel tempo [ride]. Non ero neanche lontanamente il suo batterista preferito, ma non ha importanza per me. Quel che conta è trovarsi in una situazione che ti faccia crescere e capire cosa vuoi fare. Joe è sempre stato leale, lavorava con te e ti diceva ciò su cui dovevi lavorare. Era proprio un grande.
FP: E ora sei nella Zawinul Legacy Band. Com’è nato il progetto? MB: Ho ricevuto una chiamata dal fratello di Joe, Tony Zawinul. Mi ha invitato a prendere parte a questo gruppo che coinvolge la persona che probabilmente meglio di qualunque altra al mondo riesce a incanalare il feel di Joe musicalmente, cioè il tastierista Scott Kinsey, e altri bravissimi musicisti: Hadrien Feraud al basso, Bobby Thomas alle percussioni e Katisse Buckingham al sassofono. È tutta gente con grande personalità e ci divertiamo molto. Ciò che facciamo è interpretare la musica in modo da non suonare come una cover band, ma usando in modo onesto e riconoscente ciò che Joe ha lasciato.
FB: Nei tuoi anni ’80 c’è stata un’altra collaborazione davvero interessante: hai avuto un trio con Andy Summers e Jerry Watts. MB: Sì, quella era davvero una band folle! Suonando con Joe al Nice Jazz Festival ho conosciuto Andy, che mi ha chiesto di mettere su un trio insieme a John Patitucci. John non amava molto le prove e queste cose, così ha lasciato il progetto e io ho chiamato Jerry Watts, con cui avevo suonato parecchio e sapevo essere la persona adatta. Suonare con Andy è stata un’esperienza agrodolce: sapeva essere un ragazzo davvero piacevole, ma all’occorrenza ti diceva esattamente quanto schifo gli facessi a suonare. Io, però, l’ho sempre preferito ai complimenti di chi ti diceva che eri un grande e magari non ti chiamava mai a suonare. Se hai con te un musicista che ha suonato con uno dei gruppi più influenti del ventunesimo secolo e che ha cambiato il volto della musica in meno di dieci anni, è già una conquista sentirlo discutere con te di come suoni. Non amavo sentirmi dire che non gli piacevano certe cose che facevo, ma risentendo quei nastri posso dirti che aveva ragione! Quando sei giovane sei impetuoso, vuoi impressionare, vuoi diventare famoso. Io ero così, troppo aggressivo nel suonare, ed ero terribile! Andy, invece, era un musicista maturo e ha sciolto e rimesso su il gruppo almeno tre volte, perché per lui non funzionava. Aveva un passato glorioso e non avrebbe usato i suoi contatti per avviare la macchina se non fosse stato più che convinto e fu così che andò. In più era appena tornato con la moglie, aveva avuto un figlio da poco e non aveva bisogno di nulla. Io avrei ucciso per far partire il progetto! Jerry era una via di mezzo tra noi due. Diverso tempo fa Andy ha rilasciato un’intervista a Guitar Player Magazine in cui ha elogiato il nostro trio e mi ha fatto piacere.
FP: Parliamo di quella che è stata la tua collaborazione più duratura, ovvero quella con Whitney Houston. È vero che non andavi matto per la sua musica? MB: Verissimo! Era l’ultimo dei progetti ai quali avrei voluto prendere parte. La mia ex moglie era una fan e io le dicevo che avrei preferito suonare coi Guns N’ Roses! Mi ricordo che mi stavo stufando di vivere a Los Angeles; è un gran posto per i single ma io avevo una moglie e una figlia e dovevo preoccuparmi di trovare un asilo fidato e cose del genere. Decidemmo di tornare nel Minnesota, ma senza dirlo a nessuno e mantenendo il numero di telefono di L.A. Venni a sapere che Whitney stava cercando un batterista mentre suonavo all’Hollywood Bowl con un sassofonista di nome Gerald Albright. Un musicista di Whitney arrivò e ci informò della cosa e io risposi con un “Spero che ne trovi uno!” Il giorno dopo ero già in Minnesota e mi chiamò Omar Hakim per dirmi che dovevo assolutamente fare quelle audizioni, ma io gli dissi di no, che volevo cercare di fare le mie cose. Passò all’incirca una settimana - all’epoca ero nella band di Ben Vereen, un grande attore di Broadway – e mi trovai a fare una gig di smooth jazz in Giappone. Mentre mi rilassavo in hotel, in tv Larry King disse che Ben aveva avuto un incidente stradale causato dal produttore David Foster e si trovava in ospedale in condizioni critiche. All’improvviso ero senza un lavoro. Appena tornato in Minnesota, mi arrivò la chiamata di Rickey Minor, il direttore musicale di Whitney, che voleva facessi l’audizione. I soldi se ne andavano in fretta e decisi con mia moglie che sarei andato a L.A. per tentare. Là mi diedero una sola indicazione: “Suona i pezzi come Ricky Lawson” (Ricky lasciò Whitney per andare a suonare con Michael Jackson se non sbaglio)! Il pomeriggio del giorno dopo il lavoro era mio.
FP: Per quanto tempo avete lavorato insieme? MB: Per diciotto anni. Naturalmente lavoravo anche con altri artisti, come Al Jarreau e Bruce Hornsby. Non ero mai a casa! Inizialmente con Whitney lavorai solo come batterista. Me ne stavo seduto là e osservavo tutto: il Protools, i ballerini, il direttore musicale, ecc. Poi mi chiesero di diventare anche direttore musicale, cosa che subito rifiutai. Avendo studiato composizione all’università, però, sapevo scrivere, arrangiare e orchestrare un po’, inoltre sapevo programmare e così alla fine accettai.
FP: Dev’essere stato impegnativo essere allo stesso tempo batterista e direttore musicale di un’artista del genere. MB: Era terribile! Non era certamente un brutto lavoro, ma era una delle più grandi cantanti del mondo, anche se all’epoca non me ne rendevo conto. Era una così bella persona e non cercava mai di dimostrare nulla, perché non ne aveva bisogno. Quando entrava in una stanza, la faceva levitare!
FP: Perché pensi che questa collaborazione sia durata così a lungo? È piuttosto insolito… MB: Perché non sono mai entrato nella sua vita privata. Ero il suo direttore musicale, non il suo amico o il suo compagno di uscite. Ero la persona che si occupava di far funzionare le cose al meglio. Ogni volta pensavo sarebbe stata l’ultima, non ho mai dato nulla per scontato. E ogni volta pensavo che avrei risposto di no a un’eventuale chiamata e invece ripartivo. A volte poteva essere frustrante lavorare con lei, come negli ultimi tempi, perché vedevo che non era affatto felice, ma, ancora, non erano affari miei. Non stava a me giudicare ciò che faceva. Mi occupavo della sua musica e basta. Ma posso dire che era una bella persona e a volte sento davvero la sua mancanza.
FP: L’idea che molti si sono fatti di lei dal di fuori è quella di una diva. Era così? MB: No! Era una donna dolcissima. Io ho lavorato con le cosiddette “dive”. Ad esempio, ho lavorato con sua cugina Dionne Warwick, con Aretha Franklin in varie occasioni, con Marlena Shaw, con Dee Dee Bridgewater, con Paula Kelly, con Ester Phillips e molte altre. Molte di queste donne sono trattate così male nell’ambiente che non appena chiedono qualcosa si prendono l’epiteto di “diva”. Se un uomo avanza le stesse richieste è soltanto un uomo incazzato, non un divo. Una volta Dionne Warwick decise che dovevo tagliarmi i capelli immediatamente prima di un esibizione. Mi rifiutai e mi licenziò in tronco. Non so se quello significhi essere “diva”, penso solo che fosse la sua volontà contro la mia!
FP: Hai assistito a ogni fase della carriera di Whitney Houston dai primi anni ’90 fino alla sua morte. Quale pensi che sia il suo lascito? MB: Credo si sia lasciata alle spalle molte persone che si sono avvicinate a Dio tramite lei. Credo che certa gente arrivi su questo pianeta per una ragione. Lei era una persona molto religiosa, più di quanto si creda. Penso che volesse dimostrare che Dio c’è e l’esperienza di un suo concerto poteva davvero essere qualcosa di profondo. Persino a noi sul palco, a volte, veniva da piangere ascoltandola. Una volta in uno stadio in Germania ci fu un blackout. C’erano 65.000 persone davanti a lei, e lei che fece? Si mise a cantare da sola sul palco. Non sentivi volare una mosca… Trovava la forza nella fede, aveva bisogno di Dio per combattere i suoi demoni interiori, era costantemente in lotta con essi. Giù dal palco c’era un piccolo microfono che il pubblico non poteva vedere e comunicavamo tra noi tramite quello durante la serata. Da lì, io la sentivo pregare tra una canzone e l’altra, si rivolgeva continuamente a Dio. Aveva le sue debolezze e non poteva combatterle da sola. Quando se n’è andata, io mi sono sentito davvero sollevato per lei.
FP: Ti aspettavi che sarebbe morta così giovane? MB: Cosa significa “giovane”? Lei aveva almeno il doppio dei suoi anni, ha avuto una vita molto intensa. A volte sento dire “È morto presto”. Ma cosa intendiamo con “presto”? Io sono ancora vivo e ho la stessa età di Michael Jackson...
FP: Come hai saputo della morte di Whitney? MB: Stavo per raggiungerla a Los Angeles, dove si trovava in occasione dei Grammy. Ero in Minnesota e preparavo la valigia, quando mia madre mi telefonò e mi disse che era morta. C’erano cose della sua vita che preferivo non sapere. Ho sempre voluto rimanere in una posizione che mi consentisse di gestire il lavoro che ero chiamato a fare. Per me aveva compiuto tutto quello che doveva compiere, aveva aiutato e toccato positivamente molte persone e ora era finalmente tornata a casa ed era in pace. Mio fratello è morto circa sei mesi prima e se ne è andato col sorriso sulle labbra, in pace. Io ho avuto solo in piccolo ruolo nella vita di Whitney, ma ero felice di sapere che avesse finalmente ritrovato la pace.
FP: Nel 2003 sei arrivato in Italia e poi hai deciso di fermarti. Molti musicisti italiani sognano di andare negli USA, invece. Sono sicura che per molti di loro è quasi impensabile che un musicista con una carriera come la tua possa desiderare vivere qui. MB: In realtà non pensavo di farlo. Ho trovato una donna che riesce a sopportare me e tutte le mie cose e mi sono innamorato! Sono venuto in Italia per lavorare con Giorgia e con D’Alessandro & Galli. Ricordo bene la prima volta che vidi Giorgia… Era minuscola e sembrava una bambina indifesa, ma aveva una voce paurosa! Nella sua band c’erano anche Olivia McClurkin (una delle coriste preferite di Whitney che purtroppo è morta circa cinque anni fa), Pattie Howard, il chitarrista di Mariah Carey, James Raymond alle tastiere, Rickey Minor era il direttore musicale. In occasione di quel tour conobbi Mimmo D’Alessandro, con cui ho poi stretto una grande amicizia. Mi chiese di produrre Giorgia e così produssi il cd Senza ali e altre canzoni, e scrissi per lei. Il mio matrimonio stava cadendo a pezzi, io attraversavo un periodo di profonda depressione e così passavo molto tempo qui in Italia. Non ho suonato la batteria per due anni e mezzo, avevo pezzi di batteria sparsi ovunque e non sapevo neanche dove fossero le mie bacchette. Da quando mi ero trasferito a Los Angeles non mi ero fermato a vivere per anni e anni: tour, studio, suonare, esercitarsi, mi sono sposato, ho avuto figli, ma ho continuato a lavorare e lavorare. Alcune persone lo gestiscono bene, altre meno e forse io ero troppo sensibile e alla fine sono caduto in depressione. Dopo il divorzio, sono stato a Trastevere per un periodo e ho lavorato al Greatest Hits di Giorgia. Ho scritto un pezzo per i miei figli che mi mancavano tantissimo ed era il periodo in cui è morto Alex Baroni. Alla fine Giorgia scrisse un testo per Alex su quella ballata, che diventò “Marzo”. In quel periodo di forte depressione mi sono trasferito a Milano per un paio d’anni. Non toccavo la batteria se non dovevo andare in tour e credo di esserci andato un paio di volte. Mentre ero in tour con Giorgia sono finito in Versilia; avevo mia figlia con me ed ero felice. Stavo in un hotel di Lido di Camaiore il cui gestore era la donna che poi è diventata mia moglie. In quel periodo ho prodotto il rapper Tormento, che faceva parte dei Sottotono. Ho finito col passare sempre più tempo qui, ci stavo bene, stavo lavorando e mi stavo riprendendo. Ci sono voluti almeno cinque anni. Ora sto qui, sono di nuovo felice, ho una vita incredibile. È vero, non c’è molto lavoro ora, ma viaggio, lo faccio funzionare e non ha importanza che io sia un grande musicista o no se riesco a pagare le bollette e prendermi cura dei miei figli. Vedo un sacco di miei amici continuamente in tv e sono felice per loro, ma credo che ognuno debba fare ciò che lo rende felice. Non saprei neanche dirti il numero di volte che mi sono trovato sul palco con Whitney sperando di essere altrove. Puoi trovarti su un palco con la migliore strumentazione al mondo per un concerto gigante di fronte a una distesa di persone e desiderare di essere altrove a fare le tua musica. Alcuni musicisti si trovano a proprio agio facendo i background musician per altri artisti e non c’è niente di male, ma se vuoi fare le tue cose non importa che tu suoni in un club in un’altra nazione! Quando sei in tour per due anni, torni a casa e speri di metter su la tua band ma quando ci riesci è ora di ripartire… Alcuni riescono a fare entrambe le cose, ma altri no. Io ho rimandato per tutta la vita e finalmente ora ho trovato la collocazione giusta per fare le mie cose e progredire.
FP: Cosa ne pensi della scena musicale italiana? Funziona in modo diverso rispetto a quella americana? MB: Oh, è terribile [ride]. Scherzo! Forse mi trovo solo nella zona sbagliata. A Milano o in Puglia o altrove forse funziona meglio, ma oggi la musica è difficile ovunque e tutto dipende da come superi le insidie che impediscono alle cose di realizzarsi. Ogni 10-15 anni l’industria musicale cambia radicalmente, i giochi cambiano e quel che suonavi 15 anni prima non ha alcuna validità. In Italia la cultura è più grande della musica mentre in America è esattamente il contrario, perché la nostra è un miscuglio di culture. L’Italia ha una cultura che detta il modo in cui le cose vengono fatte e questo può influire sulla musica. A me ha aiutato, in un certo modo, perché ho trovato il modo di rilassarmi, interagisco di più con la gente. Negli USA molte delle interazioni ruotano attorno a ciò che possiamo ottenere, a come possiamo ottenerlo, sempre con l’occhio fisso sull’orologio ecc. Ci sono cose che mi mancano davvero quando sono negli USA, ma certe cose là funzionano indubbiamente meglio. Allo stesso tempo ci sono cose dell’Italia che mi mandano in bestia, ma credo sia così per tutti. Mi sento fortunato a poter vivere in entrambi i posti, ma ora questa è casa mia. È una società diversa e credo dipenda da ciò che viene ritenuto importante. In America tutto è velocissimo! Ma anche quella è casa. In molti mi chiedono come abbia fatto ad abbandonare tutto. Non credo di aver abbandonato qualcosa. Vivendo qui mi sento molto più vicino a chi sono come persona e a come mi sento musicalmente e non guadagno neanche la metà di quanto guadagnassi un tempo! Mia madre spesso mi ricorda che quando ero continuamente in tour ero come uno zombie, che non mi riconosceva. Tempo fa, mentre mi trovavo nella mia casa in Minnesota, stavo guardando i pass dei tour che ho fatto e solo lì ne ho trovati 180. Ho pensato “Ecco perché ho divorziato!” Non ero mai a casa, partivo con Whitney per tre mesi, poi ricevevo una chiamata e ripartivo con Al Jarreau per altri tre e così via. Quando sei un musicista e lavori così tanto, fai di tutto perché la cosa vada avanti. Lavori, viaggi, spesso non curi abbastanza la tua salute e prima o poi hai un crollo. Succede a tutti, magari in modi diversi, ma succede. Alcuni riescono a gestire meglio di altri, ma conosco gente che ci è morta. Sembra tutto così fantastico ad alcuni musicisti che non l’hanno provato, è il mondo che sognano, ma non è facile. Ricordo che mentre stavo producendo “Di sole e d’azzurro” per Giorgia a Roma ho ricevuto una chiamata da Whitney per andare a suonare al Carnegie Hall. Sono volato negli USA e ho ricevuto una chiamata di mia madre che mi chiedeva se sarei andato a casa. Io dissi che volevo solo stare sigillato in albergo. Non volevo fare niente a parte andare in studio, mi sentivo così! Il lavoro in quei casi è la fuga, tutto ciò a cui riesci a pensare, e tutto il resto non conta nulla.
FP: Hai lavorato con un numero impressionante di artisti per tanti anni. Secondo te quali sono le qualità che un buon batterista dovrebbe avere? MB: Non so, credo che dovrebbe continuare a cercare. Questo è decisamente il decennio dei batteristi, tutti suonano cose incredibili con una tecnica incredibile, c’è molto studio e molti suonano in modo ineccepibile. Credo che, molto semplicemente, ci si dovrebbe tenere al passo coi tempi. Io sto imparando nuovi approcci alla batteria e alla musica che viene prodotta oggi. Le cose che erano valide dieci anni fa, oggi non lo sono più. Per me, quindi, non c’è alcuna regola assoluta. Tempo fa guardavo la cerimonia dei Grammy e riflettevo sui batteristi che accompagnavano gli artisti R&B e che si dimenavano costantemente, riempivano completamente di fill eccetera. Un tempo tutto questo non esisteva. Poi ho visto Lorde, che trovo interessante. Il suo batterista ha dei pad elettronici e suona note insieme al groove. Mi ha colpito. Insomma, cose nuove, tutto è cambiato, con la musica elettronica, la programmazione, le nuove tecniche, eccetera. E devi capire cosa vuoi fare: conosco persone che non hanno l’ambizione di diventare dei grandi della batteria, ma che sono più interessate a sviluppare un buon senso del tempo e a imparare a registrare le batterie e diventano ottimi recording engineer. Ripeto, tutto dipende da ciò che vuoi fare e come riesci a farlo, ma soprattutto a come puoi farlo funzionare. Bisogna sempre tenere a mente che ci sono le cose che vogliamo fare e c’è la realtà, che a volte è meno rosea, ma è la realtà!
FP: Che stai facendo in questo periodo? MB: Sto fondamentalmente ricreando la mia vita. La prima parte della mia carriera si è completamente conclusa. Ho un duo rock con un chitarrista di La Spezia, ci chiamiamo i Lords of the Desert. È un progetto che mi è particolarmente caro: scrivere musica e canzoni sulle cose in cui credi e che senti, cantare e suonare è davvero ciò che sono io, per me comunica molto di più che suonare musica strumentale e fare jam. Poi ho registrato un disco di musica jazz strumentale sperimentale in duo con un folle norvegese e sto producendo una diciassettenne svedese! Poi, come vi ho detto, la Zawinul Legacy Band. Insomma, molti progetti, cose che sono felice di fare, energia spesa nella direzione giusta. Non voglio più sprecare tempo in cose che mi facciano pensare “Vorrei essere altrove!” E penso di non essere giudicato, tipo “Uhm, non è così che facciamo a X Factor”. Sono entusiasta per la musica come lo ero a dieci anni. Mi preoccupa ogni tanto il fattore economico, ma mi sveglio motivato al mattino e desideroso di fare le mie cose. La musica è come fare l’amore, devi volerlo!
FP: A maggio riceverai il premio Legend of Rock Best Drummer al FIM di Genova. Fermandoti a riflettere sulla tua carriera e ciò che hai realizzato, quali sono le tue impressioni? MB: Sì, non so perché! [Ride] Qualcuno ha dovuto dirmi che tutte quelle cose sono successe! Non guardo mai indietro e non ho rimpianti se non per il fatto di non aver interagito di più con alcune persone. Non dimenticherò mai quando mi chiamò Jeff Porcaro. Avevo suonato in un disco jazz di Billy Childs, che all’epoca non era molto famoso. Era musica molto creativa e folle, la passavano in radio e all’improvviso ricevo una chiamata da Porcaro: “Hey, parlo con Mike Baker? Sono Jeff Porcaro. Hai suonato alla grande su quel pezzo! Vediamoci!” e mi ha lasciato il suo numero. Tutti conoscono Jeff, era fantastico e a me sembrava impossibile. È morto così presto e io forse ero troppo timido, ho pensato che lui fosse troppo in alto per poterci uscire. Stavo da poco a Los Angeles e cercavo di fare strada, mentre Bruce Springsteen voleva pagarlo un milione di dollari per andare in tour con lui! Insomma, mi dispiace solo per quelle persone che hanno allungato la mano verso di me e con cui avrei potuto interagire di più. Ma, se devo essere onesto, per quanto riguarda la carriera, non so neanche cosa sia, non ci penso troppo. Ho realizzato la maggior parte di ciò che desideravo fare, ma sto lavorando alle cose che non ho ancora fatto. Penso semplicemente che se si può fare questo tipo di cose ed essere felici, allora è più che sufficiente! Se fai qualche concerto, riesci a camparci dignitosamente e sei felice, non c’è bisogno di farne venti e farti un nome a tutti i costi. Ne parlavo col mio amico Michael Bearden , che è stato direttore musicale di Michael Jackson: “Li ho visti comparire e sparire”. Un sacco di musicisti, produttori, direttori artistici vanno e vengono, sono milionari il giorno prima e in men che non si dica non hanno un centesimo. Quindi io credo che se riesci a gestirti bene, a esser felice facendo musica, hai già vinto. Guardo alla vita che facevo ai tempi di Whitney con grande orgoglio, ma è un capitolo chiuso. Oggi le mie priorità sono altre: la famiglia, i figli, la casa. Il resto è molto bello sulla carta, ma viverlo è un’altra faccenda. Se riesci a essere felice facendo musica, avere una famiglia e le persone che ami intono a te, allora sei arrivato. Il resto non conta veramente nulla.
Batterista, direttore musicale, produttore, compositore, arrangiatore e cantante, Michael Baker ha collaborato anche con Michael Jackson, Missy Elliott, Sting, Christina Aguilera, James Taylor, Elton John, Shaggy, Usher, Wycliff, Ashante, Mary J., Celine Dion, Ricky Martin, Brandy, Duncan Sheik, Candy Dulfer, Aaliyah, Luther Vandross, Ray Charles, Herbie Hancock, Wayne Shorter, Jimmy Smith, Kenny Burrell, Dianne Reeves, Karima Ammar, Zucchero e molti altri.