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Il rock va suonato al volume che serve
Il rock va suonato al volume che serve
di [user #116] - pubblicato il

La verità del titolo viene fuori quando si ascoltano i grandi del rock: l’alchimia del loro sound è qualcosa che il digitale e l’home studio difficilmente riusciranno a replicare.
Quando ci si approccia alla chitarra elettrica e alla distorsione per la prima volta, magari da giovanissimi, l’entusiasmo e il desiderio di imitare i propri idoli porta qualsiasi chitarrista a ricercare il suono più aggressivo attraverso overdrive e distorsori sempre più spinti. Si porta il gain a fine corsa, si sommano circuiti su circuiti, eppure l’imponenza di “quel riff” sembra sempre così lontana.
Man mano che l’orecchio si affina, poi, si comincia a notare che quei suoni di riferimento non sono così distorti. Talvolta è l’orchestrazione di un brano a far apparire il tutto più incisivo, o più spesso è la mano del nostro idolo a tirare fuori gran parte della violenza che sentiamo sui dischi. Quanto all’amplificatore e all’overdrive, magari scopriamo che alla fine sono regolati più clean di quanto ci aspettassimo.
È un percorso che molti musicisti tracciano, in particolare i fanatici del rock. E spesso la responsabilità di questa epifania è attribuita a un artista sopra ogni altro: Malcolm Young, chitarra ritmica e motore del groove degli AC/DC.

Allora si guarda al suono sotto un nuovo punto di vista, ci si concentra sulle sfumature e si va alla ricerca del famoso sweet spot, quella condizione di equilibrio quasi mistica in cui l’amplificatore distorce se serve, torna pulito quando lo si richiede solo col tocco, e viene sostenuto da una dolce compressione che valorizza il suonato anziché appiattirlo. Eppure, ciò che sui grandi palchi sembra così naturale, appare inarrivabile dai comandi della classica, immancabile, pedalboard digitale che è oggi diventata il fulcro di innumerevoli home studio più e meno avanzati.
Si potrebbe discutere all’infinito circa la bontà di quelle simulazioni, la capacità del digitale di imitare il suono analogico e la sensibilità del musicista nel trovare le giuste regolazioni. La vera differenza, innegabile, in realtà è una sola: il volume a cui quelle parti che tanto adoriamo sono state registrate.

Il rock va suonato al volume che serve

Con Malcolm tiriamo in ballo uno dei più grandi, con uno dei suoni più spartani.
Nelle sue registrazioni “all’antica” troviamo tutti gli elementi che fanno innamorare del rock. Impatto sonoro, complicità col resto della band, tutti aspetti che prendono vita quando si registra insieme agli altri, in uno studio come su un palco, suonando di fronte al proprio amplificatore al “volume che serve”.
L’idea di questo articolo è che non si tratta solo dello stato d’animo in cui quella situazione mette il musicista, gasandolo e coinvolgendolo, ma una vera e propria condizione acustica in cui il suono della chitarra acquisisce caratteristiche che non potrebbe avere in altri contesti. Cioè, l’interazione tra l’amplificatore, il corpo dello strumento e il controllo stesso da parte del musicista in reazione a tutto ciò.



Quando si fa un esperimento, è bene semplificare le cose per renderle più controllabili. In questo, la chitarra di Malcolm è perfetta: niente fuochi d’artificio, solo sei corde infilate in un amplificatore bene incazzato, ma neanche spinto quanto ci si aspetterebbe.
La particolare condizione, ascoltata in una traccia isolata, permette di focalizzarsi su sfumature che altrimenti rischierebbero di perdersi. Si nota quindi molto bene quanto consistente e compatto sia il suo stile. Anche in una registrazione dal vivo come quella proposta, le note sono tutte estremamente “giuste”, le dinamiche regolari e controllate. Non si tratta però di un lavoro di compressione ad aiutare le dita, perché in diversi punti si può notare quanta escursione dinamica Malcolm abbia a disposizione. Il suo attacco è violento e deciso, fa pensare di essere lì a plettrare come un pazzo, e invece sul gran finale, a 4:13, cresce ancora di più. Regolarissimo, fracassone quando serve. La prima chiave del suo suono - come quello di tutti i grandi - insomma sta nel controllo che ne ha. Banalmente, nelle sue mani.
In un home studio o in cuffia sarebbe più difficile sviluppare una sensibilità simile, perché i termini di paragone si riducono, l’aria spostata su un palco non c’è e si è portati a convincersi che qualsiasi necessità in termini di dinamica all’interno del brano possa risolversi semplicemente con un fader sul mxier.

Il rock va suonato al volume che serve

Per il rock classico non è così, e il volume è la chiave. L’alto volume permette di avere un tetto elevato contro il quale però si deve essere bravi a non scontrarsi, o a farlo solo quando serve. Allo stesso modo, le vibrazioni poderose dell’amplificatore e degli altri strumenti rendono anche la chitarra particolarmente prona ai fenomeni di feedback. Con la registrazione di Young è evidente come ogni coda delle note, per quanto relativamente pulita e mai affogata in distorsioni folli, è sempre lì lì per innescare. Appare chiaro da subito che non è il gain a provocarlo, bensì un volume importante contro cui anche la “fermezza” di una solid body non può fare molto.
Così il suono acquista vivacità, sustain e genera tutta una serie di comportamenti organici che suonando in cuffia o con l’amplificatore in una sala insonorizzata, semplicemente, non avrebbero modo di esistere. Un compressore ben regolato potrebbe imitarne alcuni aspetti, ma a perderci sarebbe la sensibilità al tocco e la conseguente dinamica.
Quella nota che “sboccia” e cresce su una coda, quell’armonico che parte appena udibile, quella necessità di dosare la forza sulla pennata sono tutti aspetti strettamente legati al volume sprigionato dall’amplificatore in relazione al contesto, e ancor più legati al modo in cui lo stesso legno della chitarra reagisce e risuona alle vibrazioni nell’aria. E questo - fino a prova contraria - si ottiene solo suonando al volume che serve.
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