Ci sono artisti che spostano i nostri orizzonti un po’ più in là. Un pomeriggio di maggio del 1986 i Metallica hanno spostato il mio, al primo ascolto di Master of Puppets. È nato un amore che ha cominciato a scemare dopo il Black Album del ’91 e che ha registrato una delle vette più basse l‘anno scorso, quando li ho visti insieme a Lou Reed in una serie di pietose esecuzioni dei brani di Lulu, frutto della loro collaborazione: mi sono chiesta se valesse la pena perdere la faccia in quel modo per soldi, avendone già fatti in abbondanza. Una recente intervista a Kirk Hammett mi ha chiarito tutto: sono a rischio povertà. L’axeman ha detto che i Metallica sono costretti a fare estenuanti tour, rinunciando alla tradizionale pausa di due anni, perché sono tempi duri. Premesso che il marchio Metallica ha licenze per ogni categoria merceologica concepibile per un giro d’affari inverosimile e che un loro tour può far incamerare anche 90 milioni di dollari, viene da pensare che Hammett avesse voglia di scherzare. Poi, però, tornano alla mente gli ultimi parti discografici e in effetti una buona scusa per tenersi lontani dallo studio appare comprensibile se non auspicabile. Da re del thrash metal a re del trash tout court il passo può essere davvero breve. |