Non passa giorno senza sentir parlare di Les Paul. Nell'eterno braccio di ferro tra le due scuole di pensiero (e non solo pensiero), l'eterno tiro alla fune Fender-Gibson, la Les Paul sostiene da sola la lotta contro l'agguerrita accoppiata Tele-Strat. E ci riesce bene, anche in virtù del fascino che sa emanare in gran parte delle sue reincarnazioni. Ma soprattutto ci riesce grazie all'aura di regalità, ricchezza e magia che avvolge la regina della nobile stirpe, la venerabile e inavvicinabile antenata, quella vera e più inavvicinabile di Queen Elisabeth, la venerabile flametop dell'epoca 1958-1960.
"Flametop", una chitarra talmente importante per la gloriosa storia Gibson che la sua scomparsa coincide con l'inizio del tracollo verso il baratro, la proprietà Norlin, gli anni bui. E la sua ricomparsa, fortemente voluta dalla illuminata gestione di Henry Juszkiewicz, segna il successo dell'uomo che ha riportato il nome Gibson ai fasti di un tempo. In questo racconto a puntate ripercorriamo la storia della Les Paul Standard "flametop", dalla fine della sua prima incarnazione, l'uscita di scena del 1960, fino ai tempi recenti, attraverso una serie di repliche che ormai copre quasi un trentennio.
E pensare che comincia tutto con due decisioni totalmente campate in aria, eppure di quelle che - senza che nessuno se lo aspetti - tutto a un tratto fanno la storia.
La prima decisione è di fine 1957, quando qualcuno alla Gibson cambia il colore della Les Paul, dall'originale gold in voga fin dal 1952 a un elegante sunburst rosso sangue-ambra trasparente.
Non solo, pur evitando di scadere nel maniacale tanto invoga oggi, si selezionano le tavole di acero per il top scelta con più attenzione alla venatura rispetto al passato (con il gold coprente sotto ci potevi mettere quello che ti pareva).
La seconda decisione, tre anni dopo, è quella di "evolvere" la Les Paul trasformandola in una chitarra completamente diversa, tanto che il signor Lester Polfuss (LP himself) si incazza e rompe il contratto di endorsement. La Les Paul diventa SG (con rispetto parlando, una chitarra di razza totalmente differente) e tanti saluti per oltre un lustro.
Poi, nel 1967, qualcuno alla Norlin (che nel frattempo ha acquistato Gibson) si accorge che le SG si vendono meno delle vecchie LP, che il mercato delle LP usate è vivacissimo, che i chitarristi la chiedono a gran voce. E nel 1968 la rimette in produzione, ma un po' a casaccio, con il gold top delle origini e - chissà perché - due P-90 sbucati dal nulla. Incredibilmente è un mezzo fiasco, sembrava facile fare il botto, ma non lo era. I chitarristi sanno cosa vogliono, Norlin evidentemente non lo sa. Così, meno di un anno dopo, il ri-ri-lancio vede una Les Paul-2-la-vendetta già rinnovata. Colore cherry sunburst, ma di tutt'altra pasta rispetto all'originale, sgargiante e un po' cafone, dato su una tavola semipiatta tanto qualunque che più qualunque non si può. E poi, invece dei glorioso PAF, due mini-humbucking di derivazione Epiphone, formato P-90, suono in conseguenza. Si chiama De Luxe, ma di lussuoso ha ben poco, soprattutto se confrontata con l'originale.
Racconta Walter Carter, il più autorevole storico Gibson, che in realtà esistono delle LP di quegli anni con humbucking standard, anche se i cataloghi non ne parlano. In effetti vari musicisti insoddisfatti dei minipickup De Luxe ordinano la LP con gli humbucker normali, sperando di ricevere una cosa simile alla "sunburst" dei loro ricordi. In realtà quando aprono la custodia di plasticona nera proveniente non più da Kalamzoo, ma dalla nuova fabbrica di Nashville, la delusione è grande. C'è lì una chitarra con manico in tre pezzi, top in tre pezzi, palettona smodata, corpo sandwich a quattro strati, verince spessa e plasticosa. Insomma, sembra la copia giapponese di una LP, ma fatta male.
A metà anni '70, quindici anni dopo l'uscita di scena della Les Paul Standard cherry sunburst, la domanda per questa chitarra continua a crescere, trascinando in cielo le quotazioni. E' per questa ragione che nel 1975 tale Chris Lovell, proprietario di uno storico negozio di Memphis (Strings & Things, scusa se è poco) chiede a Gibson una fornitura di LP costruite a Kalamazoo su specifiche originali. Paletta piccola, manico in unico pezzo di mogano, corpo in due pezzi di acero fiammato e ben sagomato, binding sottile nel cutaway, humbuckers, eccetera. Visto che all'epoca Gibson non è in grado di fare un sunburst decente, alle chitarre viene data solo una mano di trasparente, ci penserà Chris a farle riverniciare da un liutaio che sa il fatto suo. In realtà delle cinquanta LP consegnate una parte consistente non supera l'esame qualitativo (Gibson aveva raggiunto il suo punto più basso all'epoca), tanto che Strings & Things ne tiene solo 28 tra il 1975 e il 1978 e restituisce le altre. Ecco, questi strumenti, un po' raffazzonati e pieni di difetti, sono comunque importanti perché sono i primi, veri tentativi di far rinascere la regina di tutte le chitarre. Purtroppo oggi non possono essere individuati, perché non avevano alcun segno distintivo, a parte la fattura d'acquisto.
L'iniziativa di Lovell sortisce comunque un primo effetto in casa Gibson: la Standard (cioè la LP non-Custom, ma con humbuckers) rientra ufficialmente in catalogo nel 1976. C'è anche un secondo effetto, un altro ordine di "repliche" fatto da Jimmy Wallace, appassionato negoziante e collezionista di Dallas. Anche lui ordina un po' di chitarre fatte a Kalamazoo e le vende soprattutto in Giappone. Alcune hanno tavole strepitose.
Dai e dai, la Norlin - già incalzata dalla concorrenza e dal mercato del vintage che si fa sempre più vivace - si rende conto che è ora di dedicare un po' di attenzione al passato luminoso e riapre ufficialmente la produzione delle Les Paul a Kalamazoo con la Les Paul KM del 1979, una Standard con pickup senza coperchietti, orribile ponte Nashville Tune-O-Matic (quello grosso e squadrato), ma in qualche caso con una bella tavola di acero fiammato come top.
Nel frattempo l'attenzione comincia a concentrarsi anche sui dettagli. Walter Carter ci racconta che nel 1979 Tim Shaw, progettista storico in casa Gibson, viene incaricato di ridisegnare il pickup humbucking per riportarlo alla qualità originale. In realtà gli danno l'incarico ma non il budget, quindi il poveretto si trova a dover reinventare un pickup disastrato da anni di incuria e tagli ai costi, ma disponendo solo della sua fantasia. Il lavoro che ne esce è un po' così, non si poteva fare di più viste le premesse, comunque è molto meglio di quanto si stesse facendo in quel periodo. La prima chitarra che indossa il frutto delle fatiche di Tim Shaw è la prima riedizione ufficiale (almeno negli intenti) della "flametop", la Les Paul Heritage 80, che (assieme alla ibrida 80 Elite) rappresenta un primo passo, maldestro ma lodevole, verso un ritorno alla qualità.
I dettagli evidenti della regina sono tutti lì, un top selezionato, l'hardware nichelato, il binding sottile, la paletta piccola e un sunburst decente. Ma la buona volontà si ferma alla superficie, forma e proporzioni sono ancora quelle delle (pessime) chitarre del decennio precedente (addirittura alcune 80 hanno il manico in tre pezzi, altre montano tavole di acero veramente mediocre). La Elite sfoggia un top in pezzo unico (non kosher quindi, la "flametop" ha la tavola rigorosamente in due pezzi) e una tastiera in ebano anni luce di distanza dall'originale. Eppure - oltre a dimostrare una nuova attenzione alla gloria del passato - è una chitarra di razza, solida, autorevole. La prima Gbson degna del suo nome da un ventennio.
È solo l'inizio per Gibson, ma è un ottimo inizio. .
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