Test storicamente corretti: chitarre e ampli Gibson vintage alla prova
di Don Diego [user #4093] - pubblicato il 24 settembre 2015 ore 08:00
Per conoscere al meglio la voce di un raro amplificatore Gibson bisogna contestualizzarlo. Noi ne abbiamo provati due, un GA 90 del 1955 e GA 19-RVT del 1965, insieme a tre delle chitarre per le quali sono stati pensati all'epoca: una Les Paul, una ES175 e una Epiphone Zephir.
Meno noti dei prodotti della diretta concorrenza, gli amplificatori Gibson degli anni '50 e '60 vantano una schiera di affezionati sia tra i professionisti sia tra i semplici amatori. Ne abbiamo ripercorso la storia in questo articolo, mentre in questa sede si approfondirà la faccenda in una maniera molto più pratica.
Il web si divide in due davanti al mondo degli amplificatori Gibson d'epoca. C'è chi li ama, chi li odia, addirittura indicando caratteristiche timbriche diverse per lo stesso modello, creando una gran confusione. Io non ho voluto fermarmi a queste conclusioni dal sapore del "sentito dire". Quindi, grazie al supporto di Alberto Doria, mio grande amico nonché profondo conoscitore del mondo Gibson (sia delle chitarre sia degli amplificatori), ho voluto mettere le mani su un paio di questi per dare il mio parere e farvi sentire il suono dritto e diretto. Alberto, che ringrazio per l’opportunità di avermi fatto usare le sue chitarre e i suoi amplificatori per questo articolo, mi ha anche aiutato nella stesura del pezzo, dandomi cenni storici e caratteristiche degli ampli di casa Gibson.
Alberto Doria mi ha portato due amplificatori molto vissuti. Il primo è un GA 90 del 1955, con sei (sì, avete letto bene) speaker da otto pollici, quattro ingressi (due Instrument, un ingresso Mic e un ingresso Accordion per collegare una fisarmonica) e uno switch per aumentarne il guadagno finale, otto valvole (due 5879 e una 12AU7 per il preamplificatore, due 6SN7 per lo splitter di fase, due 6L6 finali e una rettificatrice 5V4) per un totale di 25 watt di potenza. L'altro è un GA 19-RVT del ’65, un 15 watt con un solo speaker da 12 pollici, con riverbero e tremolo (come indica la sigla RVT), due ingressi, un solo canale, sette valvole in totale (tre 6EU7, una 6C4, due 6V6 e una 5Y3). A questo modello il suo possessore ha fatto una piccola modifica sul circuito del tono per renderlo più vicino alla versione tweed.
Per la prova ho voluto attenermi a una specie di principio legato al periodo, ossia ragionare come se gli ampli Gibson fossero stati costruiti per essere suonati con chitarre Gibson (d’altronde Leo Fender costruiva e testava i suoi ampli usando solo i suoi strumenti, col chiaro intento di invadere il mercato con elementi marchiati a suo nome in tutto e per tutto, ampli, chitarre, plettri, tracolle, cavi, ecc.). Ho quindi usato una ES-175 dei primi anni ‘90, gentilmente prestatami da Marcello Palmeri, una Les Paul Standard (con pickup Antiquity, ABR1, tailpiece in alluminio, potenziometri da 500k con condensatori carta-olio e wiring stile ’59) e una Epiphone Zephir con tre P90. Per riprendere il suono finale ho preferito mettere un microfono a condensatore all’altezza dell’orecchio di un ipotetico ascoltatore anziché il classico SM57 su di un cono (immaginate la difficoltà di rendere in video il suono del GA 90, che ha sei coni da otto pollici). Sul modello provvisto di riverbero ho volutamente abbondato con l'effetto per farvi sentire la pienezza e la profondità di questa dotazione di casa.
Stilisticamente, un po’ per i miei limiti, un po’ per rimanere fedele agli anni di produzione di questi ampli, ho cercato di suonare lick e frasi volutamente datate (sono un fermo sostenitore del fatto che uno strumento vintage, per essere apprezzato nella sua interezza, deve essere calato nel contesto musicale e storico in cui è stato concepito). Ammetto che mi sono trattenuto parecchio a non collegare una delle mie Telecaster o una Stratocaster dentro questi ampli, non volevo tradire il principio base di questo test (ma non è detto che in futuro non lo farò, avendo già ampiamente pagato il tributo alla tradizione con questa prova comparata). Devi ringraziare qualcuno della mia famiglia prima di passare alle impressioni sul suono, ossia mia sorella Barbara per le riprese e mia zia Carmela per avermi fatto invadere il suo salotto (volevo un’atmosfera che richiamasse i lounge eleganti degli anni ’50).
Il suono! Sì, perché dopo tutte queste parole quello che conta veramente alla fine è il suono! Come mi era successo per la prova delle due Telecaster degli anni ’50 e ’60, anche stavolta devo confermare che l’ampli del ’65 richiama i suoni di quegli anni (complice la presenza di un riverbero di gran classe) e quello del decennio precedente rispetta il carattere più "agricolo" della musica e delle intenzioni del passato.
Si sente che il GA 19 è il risultato di un progetto molto più indirizzato al chitarrista, con un suono più chiaro e brillante, una presenza più spiccata, una naturale predisposizione ai suoni puliti e cristallini. Invece il GA 90, sicuramente concepito come ampli multiuso (Bill Black lo usava per il basso e, tra i suoi ingressi, figura quello per la fisarmonica), è più diretto e minimale, ma con un suono che buca veramente l’orecchio di chi ascolta: ha tutta la grinta e la sfrontatezza della musica di quegli anni, e i sei coni piccolissimi fanno un lavoro eccellente, donando spazialità e completezza sonora, insomma non ci sono buchi nello spettro dell’equalizzazione finale. Entrambi rendono giustizia alle chitarre usate, mettendo in evidenza pregi e difetti di ognuna, e la cugina orientale (ossia la Epiphone) sembra uscire (a mio parere) come la vincitrice delle tre (in barba al costo, ma si sa che i P90 spesso e volentieri hanno questo effetto), sicuramente anche l’accordatura mezzo tono sotto e lo spessore delle corde molto generoso hanno aiutato la risonanza dello strumento di natura cheap.
Come è ovvio la versatilità non è il loro punto forte (con alcuni pedalini mi è sembrato che il suono venisse quasi mangiato via, sia in livello sia in pienezza. Di contro, alzando il volume, il crunch naturale che ne usciva era splendido, rendendo quindi inutile l’aggiunta di un overdrive per i suoni più spinti). Ma chi se lo aspettava che da degli ampli quasi sconosciuti venisse fuori tanto american sound? Per certi versi si può dire che reggono il confronto coi Fender: il modello del ’65 sembra un silverface e quello del ’55 un tweed. Peraltro hanno una loro natura molto personale (per esempio, rispetto ai Fender, hanno dei medi leggermente più presenti ma non fastidiosi) che sicuramente ben si accoppia alle chitarre uscite dallo stesso (credo) stabilimento.
In studio difficilmente saprei fare a meno del GA 90 se dovessi registrare un pezzo rockabilly o uno swing vecchia maniera, e del GA 19 se dovessi registrare un country indiavolato (quest’ultimo inoltre resta pulito pure con un volume notevole, pregio non da poco e caratteristica ricercatissima negli anni ’60). Forse dal vivo non saranno potentissimi o versatili da usare, ma da tenere a casa o per dei gig adeguati al loro wattaggio sono perfetti.
Altro aspetto da non sottovalutare: questi ampli non sono ancora stati presi d’assalto dalla mania del "compro tutto" del vintage, e quindi si trovano a prezzi ragionevoli sul mercato dell’usato. Certamente il ripristino delle parti originali non è assolutamente semplice, visto la discontinuità nella produzione e le infinite varianti da modello a modello ma, come i restauratori di auto insegnano, il piacere non sta nel progetto finito bensì nella sua realizzazione. Insomma io ve l’ho detto, poi la ricerca sta a voi!