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Disperati isterici stomp.
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di jebstuart [user #19455] - pubblicato il 15 agosto 2012 ore 08:00
Quattro meno di Atene, ma una più di Pechino... Anni fa andavano molto delle medagliette d’oro con l’ingenua scritta “Più di ieri, meno di domani”, che gli innamorati regalavano per giurare un amore in costante progressione.
Quattro meno di Atene, ma una più di Pechino... Anni fa andavano molto delle medagliette d’oro con l’ingenua scritta “Più di ieri, meno di domani”, che gli innamorati regalavano per giurare un amore in costante progressione. A esse devono essersi ispirati in questo fine Olimpiade il Presidente del CONI così come i giornalisti sportivi, che non commentano più i risultati degli atleti italiani come valore assoluto, quanto piuttosto sulla base di una sorta di spread rispetto ai Giochi dell’immediato passato.
Quattro meno di Atene, ma una più di Pechino... Io di sport ci capisco poco e non saprei dire con sufficiente competenza quale sia il trend generale dell’agonismo italiano alla luce della XXX Olimpiade moderna. So però che alla maschera tragica di Dorando Petri, alla severa serietà di Livio Berruti o Pietro Mennea, alla compostezza contadina di Fausto Coppi o di Felice Gimondi vedo sempre più spesso sostituirsi il divismo, l’esibizione della ricchezza e della notorietà, l’isteria, la fragilità psicologica. E se si azzarda per gioco un confronto tra grandi di ieri e più o meno grandi di oggi, i risultati, anche solo in termini di immagine, non sono poi così lusinghieri.
Mi si dirà che è la società a essere cambiata, che in Italia si investe poco nella formazione dei giovani, che gli sport olimpici fanno poco pubblico e di conseguenza pochi incassi. Qualcuno dei più facinorosi sottolineerà anche come alcune giurie fossero scandalosamente filobritanniche. Il che forse è pure vero. Senza contare che, tutto sommato, il fatto di vincere qualche medaglia in meno di quelle cui avremmo potuto aspirare non è in fondo questione di vita o di morte, soprattutto se paragonato ai ben altri problemi con cui in Italia la gente si confronta quotidianamente.
Ma non si può negare che, a guardare l’indoss... pardon, la nuotatrice Pellegrini ridotta a un’ombra evanescente o Alex Schwazer costretto a ricorrere all’eritropoietina per cercare di essere all’altezza di se stesso, viene il dubbio che certi insuccessi non facilmente interpretabili abbiano radici lontane, e che forse quella stessa cultura del disimpegno, dell’immagine mediatica e del pressappochismo di cui più volte - sia pure in altri ambiti - abbiamo discusso su queste pagine, cominci lentamente e subdolamente a infiltrarsi anche nel sacrario, fino a pochi anni fa quasi inviolabile, degli sport olimpici, esattamente come ha fatto fin dagli anni ’80 con il calcio e soprattutto come ha cominciato a fare con i settori giovanili della ginnastica femminile, incredibilmente coinvolti (e sviliti) in un reality show. E può non stupire con queste premesse che a Londra, insieme a un accettabile tesoretto di medaglie, siano fioccati in gran numero anche i flop clamorosi, le “sfortune”, le ansie da prestazione, gli isterismi, i gossip, i cedimenti sul filo di lana, vanificando di fatto aspirazioni costruite per anni, con impiego di risorse umane e materiali anche notevoli.
Beninteso, non sto dicendo che se qualche finale olimpica va male, vada male un’intera Nazione (anche se in effetti qualche preoccupante coincidenza ci sarebbe). Non credo infatti che la credibilità o la laboriosità di un popolo possa essere rispecchiata dai suoi successi sportivi, né mai mi è venuto in testa di confondere l’Italia con la sua nazionale di calcio o di fioretto, nella stessa maniera con cui non ho mai confuso l’Italia con la kermesse di Sanremo e i suoi minuscoli eroi, o con il guardonismo del Grande Fratello e i suoi buzzurri debosciati. Una nazione è costituita piuttosto dalla gente comune, che lavora, che soffre, che produce e che stringe i denti, sia che si tratti di affrontare oggi la crisi, sia che si trattasse di buttar fuori ieri dalla nostra terra un esercito invasore. Ed è ovvio che, fosse per me, le medaglie d’oro le darei a quanti ho visto scavare disperatamente in Emilia o in Irpinia, o agli operai della ThyssenKrupp in lacrime, o alla gente che durante gli anni di piombo raccoglieva budella e scarpe insanguinate nelle stazioni ferroviarie e nelle piazze. Ma purtroppo non è usanza farlo, e l’oro lo si conquista correndo come il vento, o pagaiando come un fuoribordo, o scoccando frecce come Guglielmo Tell. Per di più, per una serie di transfert, se questi ragazzi e queste ragazze vestiti di azzurro corrono, saltano, tirano e pagaiano come campioni, la gente - sugli spalti come a casa - gioisce, anche se nulla di concreto gliene viene in tasca. Passione per lo sport, voglia di gettarsi per un attimo alle spalle i problemi di ogni giorno e, in fondo, una buona dose di orgoglio nazionale. E non c’è nulla di male, anzi. È per questo, per tornare alla famosa medaglietta, che voglio ragionare anch’io in termini di spread. Ventotto le medaglie guadagnate. Benissimo, ma quante quelle praticamente certe e invece perse per un pelo?
E allora, coccolatissimi e fotografatissimi atleti, in primis per voi stessi e per quello in cui credete, ma anche in nome delle nostra gente, delle nostre regioni violentate dalla natura, dei nostri operai che lavorano sodo e a volte rischiano la vita, delle casalinghe, dei giovani, dei pensionati ridotti alla fame, la prossima volta cercate di muovere le chiappe, sudare un po’ di più e se possibile stringere meglio il sellino delle bici. Nessuno di noi si aspetta che raggiungiate i fasti di Paesi con centinaia di milioni o addirittura miliardi di abitanti, né che diventiate per incanto velocisti o saltatori, quando non lo siete per struttura genetica e per tradizione. Ma, per favore, quel che potete darci sulla carta, cercate di darcelo tutto. |
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