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Le vacanze ai tempi del colera...
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di jebstuart [user #19455] - pubblicato il 28 agosto 2012 ore 11:00
No, non è solo una frase ad effetto. E’ che io le vacanze al tempo del colera le ho fatte davvero.
Non so quanti se lo ricordino ancora, ma nell’ultimo quarto del Novecento, nell’epoca degli antibiotici, delle missioni Apollo, dei primi calcolatori elettronici, a Napoli ci fu un’epidemia di colera.
Un ultimo rigurgito di Ottocento che lambì il Golfo nella lontana estate del ’73.
No, non è solo una frase ad effetto. E’ che io le vacanze al tempo del colera le ho fatte davvero. Non so quanti se lo ricordino ancora, ma nell’ultimo quarto del Novecento, nell’epoca degli antibiotici, delle missioni Apollo, dei primi calcolatori elettronici, a Napoli ci fu un’epidemia di colera. Un ultimo rigurgito di Ottocento che lambì il Golfo nella lontana estate del ’73. Miliardi di vibrioni che, dopo aver viaggiato dal sud-est asiatico a Torre del Greco nelle viscere di qualche marittimo, finirono nelle fogne campane e di lì nelle saporitissime cozze del Golfo. Il colera scoppiò il 28 agosto e l’epidemia fu dichiarata conclusa dall’OMS solo a fine ottobre. 24 morti, centinaia di ricoveri.
Settembre 1973: Napoletani in fila per sottoporsi alla vaccinazione anticolerica
Al tempo del colera io non ero a Napoli. Ero in Calabria, in vacanza (allora si diceva “in villeggiatura”) nel paese di origine di mia madre. Ricordo che, sentita la notizia al telegiornale, i miei avevano l’espressione di coloni olandesi rimasti isolati nelle foreste del Borneo. Io invece ero felice, perché avevo capito – nella mia incoscienza di quindicenne – che quell’anno, nel tentativo di sfuggire al vibrione assassino, le vacanze avrebbero avuto un insperato supplemento. E dire che già di norma duravano almeno un mese. I miei non avrebbero mai affrontato il viaggio per una solo settimana. Il mordi e fuggi, le vacanze concentrate come il brodo Star sarebbero state considerate una cosa da dementi. Oltre tutto, soffrivamo di auto-lag e i primi quattro o cinque giorni servivano “per rimettersi dal viaggio”. Ci si muoveva, quindi, per almeno quattro settimane di dolce far niente. Tanto alla fine tra spese di viaggio, sussistenza, regalini, cartoline ed altro, credo che papà spendesse più o meno la cifra che io do ai benzinai per riempire il serbatoio senza fondo della mia macchina per il solo viaggio di andata.
Al tempo del colera, invece, noi eravamo frugali. Costume griffato? E cos’è? Infradito con suola ad impatto differenziato e controspinta dinamica? Macché. Il regolamento prevedeva sandali francescani. Lettini da spiaggia? Mah... al massimo, volendo fare una cosa di un lusso furibondo, sedia a sdraio di legno con telo in canapa, di quelle che se volevano trattarti bene ti facevano il sedere rosso come un peperone maturo e bugnato come un pannello fonoassorbente. E se invece volevano farti un dispettuccio, si chiudevano all’improvviso, maciullandoti gli zebedei.
In spiaggia. Inizio anni ’70
Gli ombrelloni, poi, mica ti aspettavano già piantati nella sabbia e stupidamente allineati in file regolari ... No, l’ombrellone lo portava da casa il capofamiglia, curvo sotto il sole di agosto come diretto al Calvario. Al massimo a metà percorso uno dei figli, come Simone di Cirene, lo liberava per un breve tratto dal fardello, portando al suo posto l’orrendo cilicio. Insomma, andare al mare al tempo del colera non era uno scherzo, e non c’era nulla da ridere. Anzi, per lunghissimi anni, ho avuto l’impressione che fosse più che altro un atto medico. “Siediti qui, che respiri lo iodio” (concetto del tutto privo di presupposti scientifici). “Il primo giorno, nell’acqua al massimo cinque minuti” (evidentemente erano convinti che solo col tempo la cute si impermeabilizzasse). “Non buttarti, che non sono passate tre ore dalla colazione” (idem, se non in caso di cenone di Capodanno). “Asciugati, che prendi la polmonite” (con 50 gradi all’ombra?).”Siediti e metti le spalle al sole, che ti asciuga il catarro” (e che ero, un fumatore ottantenne?). Oltre tutto, i miei ritenevano che al mare ci si dovesse andare prestino. All’alba. Io li vedo i ragazzi di oggi. Al mare ci vanno a mezzogiorno, quando va bene, perché devono dormire. D’altra parte, se papà fosse ancora vivo, nel momento in cui si alzerebbe per andare al mare li vedrebbe rientrare dall’uscita serale del giorno prima. A me invece mi svegliavano che era ancora buio, come se dovessimo andare a pescare a strascico. C’era, peraltro, il problema logistico del trasporto salmerie. Sì, perché al tempo del colera le famiglie avevano al seguito, oltre all’ombrellone, le stuoie, il canotto, le sedie a sdraio e la dotazione di asciugamani di un mese del Grand Hotel Hilton, anche una quantità di acqua (non minerale, acqua della fontana) sufficiente a far resistere nel deserto per un paio di settimane due battaglioni della Legione Straniera. E dal momento che, diversamente dai legionari, noi non avevamo cammelli per attraversare la spiaggia, ne derivava che si portava tutto a spalla. Finalmente, verso l’una, dopo aver respirato sufficiente iodio e preso radiazioni ultraviolette a volontà (le creme protettive solari non le avevano ancora inventate, ed anche se fossero state disponibili sarebbero state considerate inutili e finanche cretine) si levava il campo, si affardellavano le truppe e si ripartiva per ripercorrere i 700-800 metri che ci separavano dall’auto, che nel frattempo si era trasformata in un forno crematorio. All’epoca l’aria condizionata in macchina ce l’aveva forse solo il Sultano del Brunei, per cui si andava avanti a finestrino aperto, ottenendo quel che potremmo definire un “effetto Mercurio”, nel senso che la metà del viso esposta al finestrino praticamente ghiacciava, mentre la metà dal lato dell’abitacolo arrostiva allegramente come su una graticola. A casa, pranzo semplice ma rigorosamente ipercalorico, e quindi riposino obbligato (come il violino nella Messa di Beethoven). Io aspettavo che tutti dormissero per tagliare la corda ed andare a giocare a pallone o a tirare alle lucertole con la fionda (non eravamo esattamente degli animalisti, ma in noi c’era molto più Australopiteco rispetto ai ragazzi di oggi, che contengono invece molto più Justine Bieber). Rientro, cena (forse con un cicinin di kilocalorie in meno), passeggiata con Camillino obbligato (ad almeno tre ore dalla cena) e infine ninna.
1966. Il mitico Camillino Eldorado. Testimonial è Cocco Bill, personaggio del fumettista Benito Jacovitti
Beh, ripensandoci, raccontata così c’è da chiedersi com’è che non siamo diventati tutti degli psicopatici. Eppure se ripenso ai quei giorni, provo una struggente nostalgia e ricordo distintamente quanto mi sentissi felice. Quello stile di vita, quindi, non era è fallimentare, né vessatorio come potrebbe sembrare. Perché? Ci ho molto pensato, da quando l’ultimo diario di Federica Pudva mi ha ispirato a scrivere questo. Credo fossimo felici per due motivi fondamentali.
Primo, perché avevamo l’inebriante sensazione di non essere obbligati a far niente. Né sentivamo di dover dimostrare alcunché a chicchessia. Vivevamo anzi in un mondo tutto sommato ancora abbastanza semplice e prevedibile, ricco di punti di riferimento ed in cui le “botte di adrenalina” erano ancora considerate quello che in realtà sono, e cioè un evento patologico. Non c’era un tour operator dispotico che scandisse la nostra giornata come un kapò nazista, né qualcuno che ci aspettasse al rientro a casa per metterci sotto esame con la scusa di fare due chiacchiere ed, in ultima analisi, per mettere ossessivamente alla prova il nostro senso di adeguatezza sociale: “E canoa l’hai fatta? E rafting? E ginnastica aerobica tibetana nella piscina bollente?”. “Hai fatto bungee jumping dalle Torri Petronas? Ma almeno ti sei buttato da una delle Tre Cime di Lavaredo?”. “Sei stato a Cuba? Ed è bella Cancún? Ed i lama davvero sputano?” (gli “intervistatori del rientro”, pur se implacabili, sono spesso debolucci in geografia e zoologia applicata).
Secondo, perché guardandoci indietro sapevamo che rispetto alla generazione che ci aveva preceduto poteva andarci solo meglio. Io credo che la nostra generazione riponesse grandi speranze nel futuro e, pur partendo da una condizione oggettivamente non proprio privilegiata, vi andasse incontro con una serenità che la Storia ha invece rubato ai giovani di oggi. E se per noi anziani non è facile cambiare il mondo in cui loro si sono trovati a crescere, forse nel tentativo di rendergli meno pesante il pensare al domani dovremmo cercare di trasmettergli coi nostri ricordi un po’ della serenità e della voglia di fare che avevamo noi allora. Ai tempi del colera. |
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