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L’ultima volta che ho visto Sofia era un giovedì freddo. Chissà perché, tutte le cose tristi della mia vita sono capitate di giovedì.
Forse per regalarmi un venerdì di pianto e un sabato sera decisamente alcolico.
Oppure è il caso che si è inceppato su quel giorno e non ne vuol sapere di cambiare, un po’ come puntare continuamente alla roulette sul rosso e perdere col nero. Evidentemente quel giorno per me è nero. Il mio giovedì nero.
Era un freddo lontano, di quelli che non ti intaccano i pensieri; era un freddo malinconico come le musichette natalizie incorporate nelle luci rosse e verdi dei balconi addobbati a festa.
Il viale era pieno di gente, i loro sguardi fendevano il Natale opaco per farlo sanguinare gioia.
Sofia era lì che strusciava con gli occhi i negozi, la osservavo da lontano come fosse un film d’altri tempi.
Dove iniziava il suo sorriso iniziava anche il mio amore; dove finiva la sua mano iniziava quella di un altro uomo e con lui la mia tristezza.
La gelosia mi ubriacò il cuore come vodka secca, il calore dei nervi tesi mi esplose nello stomaco facendomi tremare.
Sparirono insieme tra la folla, io presi la strada opposta senza sapere bene dove andare.
Il copione di ogni mio giovedì triste si ripeté implacabile. Il venerdì e il sabato furono gli stessi di altre volte, simili eppure diversi. Ogni volta c’era una sfumatura nuova da soffrire, cromatismi di un dolore che non si ripete mai uguale.
Piansi il venerdì all’incirca tutto quello che riuscii a bere il sabato; la domenica ero un cervello dolorante, il lunedì ero nel classico stato d’animo dell’ubriaco pentito. Poi iniziò veramente la mia via senza Sofia.
M’attaccai al calendario come un prete di paese ma non avevo santi da festeggiare, le mie erano ricorrenze atroci, martiri, spietate. L’ultima volta che le avevo parlato, l’ultimo cinema insieme, l’ultima volta che avevamo fatto l’amore, l’ultimo addio.
L’ultimo addio, come se ci fosse un “primo” e poi un “secondo”; il bello è il brutto degli addii è che sono sempre sia primi che ultimi, se non è cosi allora sono arrivederci.
La mia vita era diventata una serie di ultime volte festeggiate a cadenza mensile, invecchiavo a episodi come un eroe dei romanzi noir.
Ma di eroico in me non c’era niente se non il silenzio. Non parlai mai a nessuno di lei, temevo che le parole la potessero sbiadire, me la rendessero lontana più di quando già era. Cosi mi cullai il suo ricordo nella pancia come un’ulcera alla quale ci si affeziona.
La primavera arrivò senza fretta, era la stessa delle poesie e delle canzoni pop alla radio; la scansai per un soffio, volevo che dentro di me fosse ancora inverno.
Il calendario ormai non lo guardavo più, certi sapori me li aveva portati via il tempo; eppure pensavo e ripensavo alla sua pelle, ai suoi capelli, al suo sudore. La dimenticai distrattamente un giorno.
La vita senza Sofia era come un appartamento da arredare: ci voleva buon gusto per scegliere i mobili e un po’ di sudore per disporli nel modo migliore.
Mi godetti quella provvisoria felicità di un animo in divenire, senza troppi pensieri.
Ma ancora una volta il mio famigerato giovedì venne a lacerarmi la settimana come un parente invidioso.
Rividi Sofia, per caso una sera. Non avrei mai dovuto uscire di casa di giovedì.
Il mio amore era un tizzone dormiente, incontrarla fu come una folata di vento che lo riaccese. In un attimo m’avvampai l’esistenza.
Lei era sempre quella di qualche mese prima, solo un po’ più sconosciuta. Ci guardammo a vicenda come vecchie foto, non mi sentivo tanto in forma, lei invece era bellissima.
Ci salutammo come si saluta un vecchio amore: fingendo.
Sorrisi – era tanto che non lo facevo – ricambiò con un attimo di ritardo, aspettava me.
La malattia di lei mi tornò nel petto, l’avevo quasi dimenticata, anzi, riuscivo a pensarla senza provare eccessivo dolore. Ricominciò tutto.
Si ripeté così la brutta copia del mio brutto periodo, mi prese un grande scoraggiamento; ci vollero molti venerdì di pianto e sabato alcolici per tentar di venirne fuori.
“Ciò che non ci uccide ci fortifica”. Non ho mai sentito una cosa più sbagliata di questa. Ciò che non ci uccide ci mette comunque seriamente nei guai.