di gabriele bianco [user #16140] - pubblicato il 18 febbraio 2014 ore 08:00
Possiamo tranquillamente definire quella del sound engineering, una complessa arte fatta di grandi competenze. Queste però risultano nulle se non accompagnate da gusto, passione, sensibilità e tanta pazienza. Marti Jane Robertson a tutto questo aggiunge un bagaglio di esperienze maturato in ben 35 anni di carriera. L'abbiamo intervistata in modo tale da approfondire la sua conoscenza.
Possiamo tranquillamente definire quella del sound engineering, una complessa arte fatta di grandi competenze. Queste però risultano nulle se non accompagnate da gusto, passione, sensibilità e tanta pazienza. Marti Jane Robertson a tutto questo aggiunge un bagaglio di esperienze maturato in ben 35 anni di carriera.
Anni nei quali ha avuto modo - oltre che di perfezionarsi - di collaborare con artisti del calibro di Art Garfunkel, Eugenio Finardi, PFM, EeLST, Vasco Rossi, Mina, Francesco De Gregori, Ivano Fossati, Patty Pravo, Claudio Baglioni, Ornella Vanoni e tantissimi altri. L'abbiamo intervistata in modo tale da approfondire la sua conoscenza.
Gabriele Bianco: La tendenza - almeno ultimamente - è quella di scappare dall'Italia per riuscire a realizzare i propri sogni in altre terre. Tu dall'America ti sei invece spostata in Italia. Cosa ti ha portata in Italia? Marti Jane Robertson: Sono venuta in Italia per la vogia di crescere come persona. Ho iniziato questo lavoro molto presto, avevo 18 anni, e sentivo che questo mondo era affascinante, ma anche molto piccolo. Sono cresciuta in un paese piccolo, avevo lasciato l'università dopo due anni e sentivo molto il bisogno di crescere e allargare i miei orrizonti. Quale modo migliore se non quello di imparare una lingua e una cultura nuove? L'America è anche un posto che vuole etichettare. Lì, una volta che ti vedono come fonico di jazz - per dire - è difficile che ti chiamino per fare altro. Invece in Italia, ho avuto la possibilità di fare tanti generi di musica, suonare sui dischi e passare dallo studio al live.
GB: Cosa ti ha portata quindi in Sardegna? MJR: L'amore. Poi, non è stato difficile rimanerci!
GB: Come ti sei avvicinata al complessissimo mondo del sound engineering? MJR: Come spesso accade, ci sono finita casualmente. Ero all'Università di Washington (a Seattle) nella facoltà di “pre-medicina” e gli studi non stavano andando benissimo. Stavo suonando nella big band dell'Università mentre seguivo corsi scolastici molto impegnativi. Sono arrivata al punto di dover decidere di mollare o lo strumento (già suonavo da più di dieci anni) o il mio sogno di diventare chirurgo. Ma non sapevo che tipo di carriera potevo fare con la musica. Casualmente, sono andata a trovare un mio amico che aveva uno studio vicino al campus e quando sono entrata in regia, sono rimasta folgorata! Ho pensato: questo fa per me! Era la combinazione perfetta di musica e tecnologia che si addiceva alle mie doti naturali. E ho iniziato proprio lì a fare l'apprendista. Un anno dopo, ero già assistente in uno studio di New York.
GB: Sei mai stata discriminata per il fatto che - almeno qui in Italia - vedere una donna dietro a una console non è molto usuale? MJR: Poche volte, ma qualche volta sì. Probabilmente la stessa quantità di volte che è andato al mio vantaggio. A volte la curiosità è più forte del pregiudizio!
GB: Qual'è l'esperienza che ti ha segnato di più nel tuo percorso musicale? MJR: O cavoli... difficile. Nel mio percorso musicale, direi che sono gli anni del liceo in cui suonavo nella banda sinfonica, l'orchestra e la big band. Avevamo un programma musicale pazzesco a scuola! Ho imparato ad apprezzare tanti tipi di musica, a lavorare in gruppo e anche da solista. Poi la disciplina che ti dà la musica te la danno poche altre cose. Forse la danza e lo sport. E questa ti aiuta in tutte le tue imprese nella vita.
GB: Qual'è il tuo approccio al recording? MJR: Prima di tutto, devo capire il genere e/o l'idea dell'artista. Poi si va a decidere le sonorità, che parzialmente vengono da me, ma preferisco che vengano prima dallo strumento. Una volta scelto, cerco di catturare la sua natura nel modo più fedele possibile. Può capitare che lo strumento non sia il massimo e vada “aggiustato” in regia. Si passa del tempo - specie con la batteria - ad accordare, scegliere rullanti etc. O con le chitarre a scegliere lo strumento e/o ampli adatti alla sonorità che si stanno cercando. Ho molta esperienza nella ripresa degli strumenti acustici e quindi di solito so quale microfono scegliere e dove piazzarlo. Ma sono anche aperta a suggerimenti. C'è sempre sempre da imparare (per fortuna!).
Mi piace quando un musicista conosce il suono del suo strumento. Sembra una banalità, ma non tutti lo conoscono. Il suono del violoncello, per esempio, non è quello che sente il violoncellista mentre lo suona. Magari si riuscisse a catturarlo, con tutte le sue vibrazioni! Il suono di chi lo ascolta è un'altra cosa. Anni di orchestra mi hanno aiutato molto nel conoscere i suoni dei vari strumenti. Prima di registrare un suono, bisogna sapere cosa stai cercando. Se no, puoi girarci intorno per ore senza sapere qual'è quello giusto. Se ti trovi di fronte a uno strumento che non hai mai registrato, la prima cosa da fare è ascoltarlo da vicino, da varie posizioni. E poi chiedere a chi lo suona dov'è meglio piazzare il microfono. Un bravo strumentista conosce la posizione migliore.
GB: Come vedi l'utilizzo di strumenti virtuali? MJR: Sono arrivati a fare pianoforti virtuali meravigliosi! Rispetto a un pianoforte acustico mediocre o accordato male, preferisco quello virtuale. E' sempre più difficile trovare uno studio con un bel pianoforte. Per quanto riguarda archi finti, qui sta nella scrittura e nella cura della dinamica dell'arrangiatore/programmatore. Possono risultare bellissimi come orrendamente finti. Per fare bene gli strumenti virtuali, ci vuole tantissima cura e dunque tantissimo tempo prima di registrare. Certe volte, si farebbe prima con uno strumento vero, avendo la possibilità. Gli strumenti virtuali creano anche qualche problema nel missaggio per la loro mancanza di armoniche. Tendono ad ammucchiarsi nelle stesse frequenze, specie tra tastiere.
GB: Quali sono a tuo avviso le caratteristiche fondamentali per un sound engineer? MJR: Passione. Senza quella, molli. E' troppo difficile. Poi la musicalità. Il lato tecnico viene. Ah, è fondamentale saper collaborare. Senza gli artisti e i musicisti, noi non siamo nulla. E finché il disco non è nostro, noi siamo a servizio.
GB: Cosa credi che abbia spinto tutte le persone che si sono affidate alla tua arte a scegliere proprio te? MJR: E' difficile sapere cosa gli altri pensano realmente di me. Sono una persona seria e ho un approcio al lavoro molto serio e di passione. Faccio ogni lavoro con la stessa dedizione, che sia con Fossati o con un jazzista sconosciuto. Non esiste il lavoro di serie B. Forse di me si sa questo. Non so...
GB: Hai avuto modo di lavorare anche con Feiez (in questo caso al Sax) per il disco di Mario Acquaviva (1987). Chi ha avuto modo di entrare in contatto con lui, ha alla mente una persona brillante, coinvolgente e sempre pronto alle sfide. Qual'è stata invece la tua percezione? MJR: Feiez... quanto manca! Lui è stato una delle prime persone che ho conosciuto quando sono arrivata in Italia nel 1986. Mi ha fatto da assistente fonico alla Psycho a Milano. Una persona solare, velocissima di testa, dolce e divertente. Si è preso cura di me in quest'Italia tutta nuova, piena di trappole! Forse la persona più musicale, in senso lato, che abbia mai conosciuto. Senza saper leggere, se mi ricordo bene, una nota. Lì potrei sbagliarmi.
Fare la sezione di sax sul disco di Mario Acquaviva è stato divertentissimo! Ho la sua vecchia custodia di contralto perché ai tempi ho voluto regalargliene una bella, di quelle dure a forma dello strumento. Gliel'ho comprata a New York. L'unico modo per portargliela era di lasciare la mia lì e portare in aereo il mio sax dentro la custodia nuova. Così sono arrivata a Milano che non ne avevo più. Quando gliel'ho data, lui mi ha dato la sua. Ora sono felice di avere questa custodia disastratissima (com'era Feiez, d'altronde) che è un pezzo di lui.
GB: C'è mai stata una situazione capace di metterti in difficoltà? MJR: Eh, sì. Quella che mi viene prima in mente è stato il primo tour grosso che ho fatto. Diciamo che era il primo vero lavoro live che facevo con tanti musicisti e con un impianto grande. Non ne sapevo niente del live! Siccome ero stata imposta al service dalla produzione, ce l'avevano un po' con me (lì, si che il fatto di essere donna ha inciso!). Sono stata buttata nell'arena come la carne ai leoni. Erano in pochi a volermi aiutare e sarò sempre riconoscente a loro. Gli altri non vedevano l'ora di vedermi sbagliare. Per fortuna, le mie orecchie mi hanno salvata. Puoi immaginare la mia reticenza a fare un altro tour dopo quello! Ma una cosa così non mi è mai più successa. Anzi. Dopo ho trovato sempre persone molto collaborative.
GB: Come se già le tue giornate non fossero abbastanza piene, insegni anche Kundalini Yoga. Come ti sei avvicinata a questa disciplina? MJR: Hahahaha! Sì. Il Kundalini Yoga è fantastico! Un giorno una mia amica mi ha portata per una lezione-prova ed è stato amore a prima vista. L'ho sentito proprio la MIA disciplina! Mi ci sono dedicata molto. Ho avuto una brutta malattia con delle cure pesanti e lo yoga mi ha sostenuta sia mentalmente che fisicamente. Sento che mi ha salvata. Quando è uscito fuori il corso insegnanti, mi sono iscritta subito. Volevo poter aiutare le altre persone con questa disciplina che mi aveva aiutata così tanto.
GB: Al momento di cosa ti stai occupando? MJR: Tante cose di diverso genere. Ho appena ultimato dei mix nel mio studio a casa, per una Nuova Proposta per Sanremo e per una pianista/cantante molto talentuosa di Parma. Tutti e due produzioni curate da Pietro Cantarelli con il quale collaboro da tanti anni. Ho delle registrazioni di jazz e teatro/canzone da fare, qualche mastering e altri mix per una cantante che fa musica per il Kundalini Yoga e la Shakti Dance (ramo del Kundalini), un mondo diversissimo da quello della musica pop o jazz. Sonorità che ho imparato a conoscere con la mia pratica. A breve, inizierò a insegnare la ripresa dell'audio al Conservatorio di Cuneo. Poi le mie classi di yoga.
GB: Come vedi il tuo futuro nel settore? MJR: Mi piace molto l'idea di passare alle nuove generazioni quello che ho imparato in più di 35 anni di carriera. E' sempre più difficile per i ragazzi imparare il lato pratico di questo mestiere. Gli studi stanno tutti chiudendo e quindi diventa sempre più complicato fare da assistente o apprendista. Io ho imparato così e ritengo tutt'ora che è il metodo migliore. Per questo, sono felicissima di collaborare con il Conservatorio di Cuneo con un corso di tre anni. Negli ultimi due anni ho tenuto da loro delle Master Class che mi hanno dato molta soddisfazione. Questo è un modo per avere più continuità con i ragazzi. Tutto questo non vuol dire che voglio smettere di fare il fonico. Anzi, ho sempre voglia di aiutare gli artisti a realizzare la loro musica nel miglior modo possibile. La passione rimane.