Volevo parlare di musica, a dire il vero. Ma ci sono altre riflessioni che da qualche giorno mi frullano nella testa.
Il mio figlio minore sta facendo l’Esame di Stato. Una pietra miliare nella vita di chiunque l’abbia sostenuto. Non a caso è più noto come “Esame di Maturità”. In pratica la Scuola dovrebbe restituirci i pischelli brufolosi che le abbiamo consegnato a quattordici anni, maturati, barbuti e - in teoria - pronti ad entrare nel mondo degli adulti.
Io ricordo la mia Maturità, quasi quaranta anni fa, come un evento epocale. Avevamo cominciato a pensarci durante l’estate precedente, i cui mesi di dolce far niente andavano via in un’atmosfera di rimpianto perché ci sembravano l’ultima vacanza degna di questo nome. E probabilmente era vero. Quei tre mesi l’anno di sole, di spensieratezza, di partite di pallone, di schitarrate e di spiagge assolate non sarebbero più tornati. L’anno successivo avremmo avuto il mitico esame poi o l’Università o il lavoro. E di questo eravamo non solo consci, ma in qualche modo timorosi ed orgogliosi al tempo stesso.
Alla fine, i fatidici giorni arrivarono. Ricordo che nel Liceo si respirava un clima di guerra e di occupazione nemica. Nella mia classe c’erano un futuro direttore editoriale della Mondatori, un noto uomo politico, un chirurgo plastico alla moda. Ed anche gli altri, con rarissime eccezioni, erano gente in gamba. Ma i membri esterni della Commissione ci sembravano comunque Untersturmführer delle SS. Si aggiravano per la classe con aria perennemente ispirata, posando di tanto in tanto l’occhio torvo ed indagatore su qualcuno coi jeans più consumati o i capelli più lunghi come a chiedere: “Maturo??? Sei sicuro di essere maturo con quei capelli???” Noi eravamo tutti uomini fatti (all’epoca diciotto anni valevano per trentasei) ed eravamo abituati a fare a botte a fianco dei metalmeccanici nei cortei e sotto i palchi dei comizi, o ad urlare i nostri neonati diritti sul muso del Preside. Ma di quell’esame, di quei commissari avevamo lo stesso un timore reverenziale. Coi compagni eravamo stati spesso amici fraterni e in qualche caso anche acerrimi avversari politici (cazzotti e catenate comprese), ma in quei giorni di sudore e paura fummo incredibilmente solidali. Ed alla fine, come Dio volle, l’esame andò. Promossi tutti. Il giorno dei quadri ci salutammo, spossati come puerpere, promettendoci amicizia eterna come i personaggi di De Amicis.
In questi giorni osservo mio figlio e i suoi compagni. Non mi pare viva particolari timori, né sia immerso in un clima di particolare solidarietà con la sua classe. E la stessa sensazione ma la danno i suoi compagni, che sembrano fatti con lo stampino, sia nell’aspetto esteriore che negli stati d’animo. Sono impressioni mie, per carità, che non pretendono certo di avere valore sociologico. Ma le avverto incontrovertibilmente. Voglio sperare, e lo spero veramente, che la sua generazione sia migliore della nostra, e che sia per questo che da una parte non veda più nei commissari esterni dei cerberi assetati di sangue giovane, e dall’altro viva la vigilia delle prove con serenità e distacco. Voglio sperare d’altra parte che dopo decenni di lotte e prese di coscienza siano i docenti stessi a non considerare più gli esaminandi come vittime sacrificali, senza però per questo sentirsi in dovere ed in diritto di indulgere in ammiccamenti ed amnistie. Voglio sperare, insomma, che dall’aria di disimpegno e di calma olimpica che si respira tra i banchi debba dedursi che finalmente la Scuola è divenuta la Casa dei giovani. Non che ha gettato la spugna. |