Una recente discussione in People ha solleticato
irresistibilmente la porzione di neuroni che, nella mia scatoletta
cranica, sembra deputata a evidenziare le singolari contraddizioni
che i condizionamenti generano nel nostro modo abituale di inquadrare
i concetti.Tutto è partito dall'interpretazione di un brano
celeberrimo, eseguito per l'occasione da alcuni accordiani. Tra i
commenti, certi sottolineavano la fedeltà all'originale, altri
elogiavano l'interpretazione personale. Entrambi gli approcci
comportano delle difficoltà, e quindi richiedono delle attitudini, ma
traspare in modo abbastanza chiaro come per i più la personalità e
l'inventiva siano considerate una sorta di obbligo, una conditio sine
qua non se si vuole essere considerati Musicisti. La riproduzione
fedele invece, affatto semplice sia dal punto di vista tecnico, sia da
quello dell'espressività, sembra comunque una sorta di "dio minore".
Abbastanza comprensibile, tutto sommato. Sembrerebbe logicissimo.
Però... c'è qualcosa che non quadra. Se assistiamo a un concerto di una
grande orchestra, composta da musicisti eccelsi, che esegue in maniera
mirabile e precisa dei brani classici, guidata irreprensibilmente da
un Direttore capace e attento al minimo dettaglio, dove nemmeno una
nota di triangolo è lasciata al caso o -orrore!- all'interpretazione
personale, facciamo per caso un ragionamento del genere?
Non è più
probabile invece che storciamo il naso o ci scandalizziamo se si
verifica il contrario? E non si tratta sempre di musica, di emozioni?
Perché il nostro condizionato cervello si comporta da integralista, ma
a compartimenti stagni, assolutamente isolati uno dall'altro anche
quando l'argomento è il medesimo, e non ce ne rendiamo conto?
Insomma,
Uto Ughi (per dirne uno) è un pappagallo o un usignolo?