Eddie il giorno seguente partì per Londra per andare a vedere il concerto degli Who, ma dopo qualche giorno tornò, e tornò da Fausto.
In quei giorni il Casale era pieno zeppo di amici un po' curiosi e un po' opportunisti: ragazzette ben curate, rockettari con la pancia da birra a 25 anni, chitarristi che si scaldavano suonando scale e sweep e varia umanità.
Eddie arrivò e, dopo qualche momento interlocutorio, spiazzato forse da tutte quelle presenze, venne in sala e cominciammo a suonare. I concerti e le prove le avevano fatte in trio (Eddie, Fausto e Francesco, il bassista), ma da quella sera diventammo un quartetto. Io, che forse proprio grazie alla mia discrezione mi ero procurato la possibilità di collegare il jack, continuai a suonare e basta.
Per due notti suonammo improvvisando lunghe jam psichedeliche, rock, punk, qualche cover (nessuna dei Pearl). Una mattina mi toccò anche accompagnare Eddie all'hotel (a piazza di Spagna) e in macchina, nel vecchio pandino scassato, mi chiese se c'era uno studio dove registrare. E così altre due notti di seguito (da mezzanotte fino a mattina) ci vedemmo in studio e registrammo delle cose (per la verità alcune le fecero in trio, e alcune anche con me), poi Eddie ovviamente si portò via i nastri (DAT). In una pausa, lì in studio, pensai di sfruttare quell'occasione e gli domandai qualche consiglio per catturare l'attenzione del pubblico quando si suona live.
Inizialmente lui cercò di capire in quali situazioni io mi trovassi in genere, e gli spiegai: “Suono in un gruppo cover, nei pub, e la gente che c'è non è venuta lì per me, è venuta lì per bere e per stare in compagnia”. Lui allora di primo acchitto mi disse che suonando per i soldi non avevo sufficienti motivazioni per dare di più.
Poi capì che volevo di più da lui e dalla sua esperienza. E qui si fece interessante, mi disse: "Per noi, quando saliamo sul palco, durante i primi brani il pubblico quasi non esiste; non gli parlo e non li guardo. Siamo tutti concentrati a prendere prima confidenza fra noi, col suono che c'è sul palco, con gli altri musicisti, a rilassarci e concentrarci. Poi piano piano tutto diventa più comodo, ti abitui al suono, ti senti più a tuo agio, meno teso e allora cominci a guardare il pubblico, a considerarne la presenza, e piano piano anche a interagire. Ma prima di pensare al pubblico pensiamo a noi stessi, a sentirci insieme anche umanamente, a prendere feeling fra noi e sintonizzarci. Poi col pubblico, piano piano, prima saluti, poi due canzoni dopo dici una cosa, poi piano piano (quando la band si è scaldata si è scaldato anche il pubblico) li riesci a scaldare, a farli cantare e gridare. Poi a me piace giocare con loro e con le loro emozioni e allora prima gli dico qualcosa di leggero di rock 'n' roll, qualcosa che sappia di festa, poi di punto in bianco gli parlo della morte e li ammutolisco tutti, e poi fai una battuta, sdrammatizzi e parti con un rock'n'roll e così quest'altalena di emozioni, sento che li mette tutti in mio possesso. A quel punto mi seguono e da lì è tutto in discesa. Un po' farli pensare un po' farli divertire, ma prima il feeling con la band".
Ho sperimentato, soprattutto per quel che riguarda il feeling da cercare prima fra noi musicisti sul palco, funziona. Quando ti diverti la gente (che "di musica non capisce niente") lo sente e si diverte, se invece ti stressi per il risultato o per l'errorino stressi la gente.
La gente, la massa, ho l'impressione che, pur non cogliendo le sfumature tecniche-armonico-melodiche-timbriche di un'esecuzione, colga l'emotività di cui nutri le tue note.