Figura di primo piano per larga parte della seconda metà del XX° secolo, il cantautore sembra aver perso peso e slancio creativo nell’ambito della più generale categoria della comunicazione artistica. Sembra come gli si sia rotta una gamba della sedia o abbia cambiato vestito e rotta emozionale, che l’orizzonte gli si sia avvicinato troppo e abbia perso il fascino della distanza o che il suo arcobaleno abbia preso un andamento spezzato, rotto dai gabbiani affamati dei tempi moderni. Eppure essere cantautore credo sia ancora una voglia, un’inclinazione da far fiorire, da aiutare a crescere, a diffondersi, a prendersi il suo volo. Una voglia che, potendola piantare come un seme di zucchina, personalmente ne pianterei distese enormi ben sapendo che fare questa “attività”, con quel tanto di unicità e originalità che richiede, vuol dire bere lacrime e stelle. Una sera che discutevo con alcuni componenti di una band giovanissima se valesse di più tentare di produrre pezzi di propria composizione o limitarsi all’esecuzione di cover, l’argomento cantautore sbucava sempre fuori e un po’ tutti erano d’accordo che l’attività cantautorale è una di quelle che si basta, che è meno preda di mode, che è così fortemente libera di prender strade anche “sbagliate”, lontane dalla corrente principale. Nell’intrecciarsi delle opinioni sull’argomento principale cover sì-cover no io amavo alla grande queste deviazioni dal tema perché per me il cantautore è il mattone fondante di gran parte della musica che è girata e che gira intorno. Proprio per questa solida convinzione mi attivavo con tutte le forze per contagiare con questo concetto tutta l’aria intorno la band. Spruzzavo loro addosso virus d’ogni tipo, bemollizzati e non, virus armati di passione stagionata e incrollabile. Loro capivano, o così mi sembrava. Capivano anche che la futura sopravvivenza artistica di chi aveva nello stomaco velleità cantautorali, era legata a un bel salto nel calderone bollente delle cose nuove “da far su”, da far vivere, con originalità e potenza, targate col proprio nome, marchiate a fuoco con le proprie felicità, sofferenze, salti nel vuoto, beatitudini.
Io lo so che la figura del cantautore è vicina a quella di un canta-untore, di uno che sparge se stesso in gesti infetti d’amore e di rabbia. Gesti fatti di parole fin troppo articolate, anche confuse, spesso malate e vaneggianti, che viaggiano sospese cercando un’altra anima dove soffermarsi, magari fermentare, bollire .. e poi continuare l’estenuante viaggio di persona in persona, in cerca di comprensione, sostegno, qualche bacio di contrabbando per quelli mai dati e per quelli mai ricevuti. Quelli della band bevevano birra e sudavano acqua e luppolo, io sudavo la mia vita nel cercare di far capire la bellezza di non essere gli altri, di non essere imitativi, di non sporcarsi le mani in delitti musicali altrui. Non me ne voglia il caro amico e compositore Bigazzi (recentemente più che scomparso apparso in cielo), ma in questo caso quel suo slogan “Gli altri siamo noi” è meglio tenerlo lontano e farlo valere per il pregnante significato di solidarietà e comprensione. Il cantautore deve essere un “Io sono io”. Evitando di essere Dio, certo, ma di gioire nel trasformarsi in un pifferaio magico, un canta-untore, un dispensatore di profumi di vita, uno spruzzatore di miasmi, un sobillatore, un ribaltatore di carte, alla ricerca di tutto quello che non c’è o non si vede. Non vorrei andare oltre in questo entusiasmo. Vorrei spingervi, per quel che posso, a essere i ladri delle vostre ricchezze nascoste, i costruttori di scale di note con gradini da inventare. gli scompigliatori di sintassi ingessate, gli sputafuoco di parole infuocate. In fondo a essere quello che avrei voluto essere per sempre e che solo qualche volta sono stato. Vi aspetto al prossimo appuntamento che credo intitolerò “Perché si scrive una canzone”. Per il come ci incontreremo nuovamente in questa specie di i-pub chiacchierone che sto cercando di metter su.
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